mercoledì 30 aprile 2014

Il Taranto e le occasioni che contano

Prima il Brindisi, dopo il Francavilla, poi il Monopoli, quindi il Marcianise, infine la Turris. Una dopo l’altra, cadono molte protagoniste della quinta serie che alberga tra la Puglia e la Campania. E il campionato seleziona le forze migliori. Premiando, cioè, chi ha sbagliato meno. Il rush finale è una corsa che riguarda Matera e Taranto. E nessun altro. Lotta a due, battaglia dura. Stessa resa (cinquantotto punti, prima di domenica scorsa), stessi match a disposizione (due). E, attorno, il profumo di spareggio. Incandescente, affascinante. Ma in questo torneo, ormai lo sappiamo, le porte si aprono, si chiudono, si riaprono e si richiudono con facilità disarmante, in un vortice di emozioni purissime. E davvero niente è scontato. Oltre tutto, il calendario è infido per tutti, sino in fondo: anche per il Matera, che viaggia verso Vico. E pure per il Taranto, ospitato dal Marcianise. I costieri cercano punti per salvarsi, ma la gente di Cosco passa ugualmente. Mentre la formazione jonica si ferma, spartendo la posta con i casertani, troppo orgogliosi per rassegnarsi alla quinta piazza dopo tre quarti di stagione di rilievo e qualità. Ecco, allora, che i destini sembrano compiersi prima del tempo: il Matera vede la C e progetta di superare in casa il Manfredonia, nel prossimo match, per festeggiare. E il Taranto mastica amaro, amarissimo. Rispolverando tutti i suoi limiti proprio davanti al traguardo. Non è, del resto, un segreto: con esperienza e personalità, Papagni ha occultato (o ridimensionato) la natura sdrucciola di un organico male assortito, poco equilibrato (penetrante nell’area avversaria, morbido in fase di filtro e non possesso) e non sempre credibile nelle occasioni che contano. Cioè, nelle gare che indirizzano la stagione. Sin quando ha potuto, però. Per intenderci: gli accorgimenti tattici e il buon senso del tecnico biscegliese, con il sostegno di un alto quoziente realizzativo, hanno finito per sostenere il collettivo, mantenendolo sin qui in prima fascia: eppure, i problemi strutturali di un tempo sono rimasti tutti e gli infortuni individuali e di reparto hanno scritto il resto. Pesando al momento della verità. La partita di Marcianise, peraltro, riassume un po’ di verità assolute. Denudando, al contempo, un atteggiamento difettoso: il Taranto si porta in vantaggio per due volte, finendo però per intimorirsi e per concedere metri e iniziativa alla manovra della formazione di Fogliamanzillo. In sostanza, reticenze e personalità sbiadita condannano la squadra ai playoff: a meno che il campionato non riservi, al fotofinish, l’ultimo coup de theatre. A verdetto virtualmente scritto, tuttavia, non possono convincerci le prime accuse, più o meno feroci, schizzate irrazionalmente sulla società, sul tecnico e sugli effettivi di un organico allestito con sacrifici estivi non indifferenti e, soprattutto, in fretta, alle soglie del torneo. La riappropriazione del calcio, sui due Mari, d’altra parte, è un processo lento che deve tenere conto di molti dettagli e, prima di ogni altra cosa, degli insegnamenti del passato. Approfondire le valutazioni ed esercitare il diritto di critica è legittimo. E, anche da queste colonne, nessuno ha mai circumnavigato la questione, discutendoci sopra. Ma sparare addosso a questo Taranto, sia pure sulla scia della delusione o della frustrazione, è ingiusto. Almeno questa volta, le attenuanti ci sono: e sono roba seria.  

martedì 29 aprile 2014

Martina, tra delusione e speranze

E, ad un certo punto, arrivano i momenti in cui le parole e i disegni non contano. In cui, invece, serve esclusivamente vincere. Non importa come. Chiunque si pari di fronte. Generalmente, peraltro, questi sono momenti che arrivano in fondo al viale, davanti ad un bivio. Di qua il destino che si accartoccia sotto il peso della colpevolezza: e che, nel caso specifico, si chiama retrocessione. O serie D. Ovvero, la reimmersione nell’universo dei dilettanti: di nome, più che di fatto.  Di là, la redenzione della serie C, quella unica, quella tutta nuova pensata dalla Lega e da un calcio che prova a sopravvivere a se stesso. Cioè, la cancellazione di ogni peccato accumulato in corsa, sin dagli albori della stagione. E, nel mezzo, quella lotteria degli spareggi di fine corsa: che si chiamano ufficialmente playoff e che, questa volta, sono contemporaneamente playoff. Quella lotteria un po’ bizzarra alla quale il Martina, ad un certo punto, si era persino ribellato, provando ad ottenere di meglio. E alla quale, infine, proprio nell’ultima settimana si era concettualmente affezionato: un po’ perché l’ottavo posto (l’ultimo utile alla promozione diretta) era ormai blindato dal Lamezia. E un po’ perché la ricorsa recente ha offerto i numeri giusti per pensare ad una scappatoia un po’ scomoda, ma ugualmente utile (a fine playout, la migliore passa in C e le altre tre affondano in D: mai accaduto, su questi campi). Vittoria deve essere, allora: senza dubbio alcuno. E vittoria, alla fine, è stata. E non importa se la gioia si libera oltre il novantesimo, pochi secondi dopo aver incassato il sigillo del pari: che l’avversario non cerca, ma trova. Quasi per sbaglio. Magari, senza troppo gradire. La formazione di Tommaso Napoli, a centottanta minuti dalla conclusione, s’imbatte nel Cosenza già promosso, sparring partner che s’impegna per obbligo, non per convinzione. Approccia senza foga, si nutre dell’accondiscendenza altrui, ma non sfonda. Segnare dovrebbe diventare l’operazione più naturale, ma la manovra s’inaridisce e un certo fastidio cresce. Il lavoro di Montalto e Arcidiacono, prima degli altri, è però premiato dalla costanza e dall’istinto del bisogno: il gol dell’artigliere siciliano sembra promettere la prosecuzione dell’avventura. Tutto, invece, si complicherà più tardi, a fase di recupero già avviata. Per appianarsi magicamente qualche istante più avanti. Perché così è scritto. E così deve essere. Attenzione, però: non cede il Martina e non cede neppure la concorrenza. La posizione di vantaggio – certo - resiste, ma non basta ancora. Traducendo, i playout e le speranze di salvezza vanno ancora guadagnati: all’ultimo chilometro si supera lo Stretto e si rende visita al Messina, un’altra delle otto squadre già qualificate al prossimo campionato di terza serie. In certi frangenti, i favori della provvidenza sono particolarmente graditi. Di contro, un po’ di rammarico affiora ugualmente, emerge. L’obiettivo dell’ottava piazza, creduta tra marzo ed aprile un traguardo oggettivamente raggiungibile, svanisce nello spazio di due settimane e il disappunto è corposo. Alla fine, cioè, pesano le occasioni perdute, i punti sperperati.. Incide quel gap di partenza vincolante: che un organico ampiamente rinnovato e qualitativamente migliorato dopo il girone di andata aveva tuttavia esorcizzato. E non paga neppure quella consapevolezza di essere diventati all’altezza del compito, in coda ad una partenza affaticata. Potremmo sbagliarci, ma ipotizziamo lo stesso: forse è proprio quella sicurezza acquisita a metà del cammino a generare nel gruppo un pizzico di supponenza o di rilassamento. Di sicuro, la seconda versione del Martina semina senza raccogliere, lasciando qualcosa per strada. E quel qualcosa è decisivo: il progetto di base non si evolve, non si compie. Nel percorso, ci sono le premesse: ma difetta la conclusione. E la sensazione che resta è quella di un’operazione incompiuta. Che soltanto il primo posto nel girone finale potrà scacciare.

lunedì 28 aprile 2014

Lecce, manca l'acuto finale

L’impresa è esagerata, ma la speranza deve reggere sino in fondo. L’ultimo atto della regular season nasconde un obbligo: vincere e sperare. Che le avversarie realizzino poco o niente e che poi, la domenica successiva, si accontentino di un pari nello scontro diretto. Finendo per avvantaggiare, in qualche modo, la terza concorrente che, per l’occasione, riposa. E che, dunque, non potrà incrementare la propria classifica. Diciamo pure che, da una certa angolazione, non va benissimo: il Frosinone si libera agevolmente, in casa, dell’Aquila. Ma neppure malissimo: il Perugia, a Salerno, pareggia. Solo che il Lecce, a Pisa, stecca. Disperdendo la possibilità di spareggiare con gli umbri e autoinfliggendosi la punizione dei playoff con una settimana di anticipo. Niente primo posto: nemmeno per sette giorni. Ma neppure seconda piazza e, quindi, niente pole position nella griglia degli spareggi di maggio. La formazione di Lerda, invece, si ritrova terza della classe: condizione, questa sì, inattaccabile. In Toscana, del resto, l’avversario è immediatamente più pronto. Il gol che decide il match piove abbastanza presto, dopo appena undici minuti. Il Lecce non saprà rimediare: Miccoli ci prova e spreca il pari, poi il tecnico decide di avvicendarlo con Zigoni. Da qui in poi, la squadra si spegne, rassegnandosi alla crudezza della realtà. Bogliacino e compagni si fermano un attimo prima del traguardo: pagando, forse, lo stress accumulato in una rincorsa dispendiosa. Soffrendo, una volta di più, la pressione dell’evento. Fallendo, così come in occasione dell’ancora recente sfida con il Perugia, l’approccio ad una gara troppo delicata. E, probabilmente, inchinandosi anche di fronte al fattore psicologico: il Lecce, magari, non ci crede sino in fondo. Oppure no: perché è così, in fondo, che doveva andare. Qualche giorno di silenzi e di riposo, allora, serviranno ad assorbire delusione e rabbia. Quindi, la giostra dei playoff. Crederci, questa volta, è assolutamente necessario.

mercoledì 16 aprile 2014

Grottaglie, crollo verticale

C’era una squadra incerta ed ingenua, minacciata da complicazioni societarie stringenti, in difficoltà palese sull’erba amica, immatura nella gestione dei passaggi fondamentali: era il Grottaglie di Alberto Bosco, esautorato a metà del cammino, prima della rivisitazione tecnica e del consolidamento del club. Così, Giacomo Pettinicchio ereditava una classifica affaticata e un organico migliorato negli uomini e arricchito numericamente: e, con le energie nuove, l’esperienza del nocchiero e il lavoro, lievitavano la produzione di gioco, l’abitudine al risultato e, dunque, le speranze. Il nuovo Grottaglie, lentamente, si arrampicava sulla classifica, avvicinandosi al traguardo. Rifiutando idealmente persino la prospettiva dei playout, così scomodi e misteriosi. Rivolgendosi, in seconda persona, anche alle big del torneo. Pur senza ottenere, tante volte, la moneta che avrebbe pienamente meritato. Ecco, proprio in questo segmento temporale, segnato da un’evoluzione strutturale e tecnica, cominciava invece a propagarsi il male: figlio legittimo di un’involuzione mentale, ovvero psicologica. Contraccolpo violento, verrebbe da dire: la scarsissima resa, a fronte del buon calcio espresso, finiva per spegnere la squadra, velocemente. Proprio mentre il calendario si addolciva. Proprio mentre la concorrenza si risvegliava. Guardare la classifica, in questo momento, impaurisce: il Gladiator, ultimo, è appena un passo indietro. La Puteolana ha appena formalizzato il sorpasso. Qualche scontro diretto (a Metaponto, in casa con il Vico, sul sintetico di Manfredonia) è transitato invano, lasciando in dote appena un punto: che, poi, è l’unica e insufficiente soddisfazione degli ultimi due mesi. E i playout, alla fine, sono addirittura un’incombenza niente affatto scontata, eppure da salutare volentieri. L’ultimo capitolo, in terra sipontina, illustra sapientemente il crollo verticale. E fotografa le fatiche di una squadra che non sa più reagire alle avversità. Schiacciata, probabilmente, dalla sua stessa (e genetica) fragilità. Che l’ordine tattico e la manovra più spigliata, sicuramente, hanno occultato per un po’: senza, tuttavia, annientare. E scoprendo il lato più intimo e debole del carattere del Grottaglie: quel carattere che la società, adesso, pretende. Ringhiando.

martedì 15 aprile 2014

Lecce, provarci è un diritto

La lunga rincorsa irrobustisce i muscoli e gli appetiti del Lecce, che sull'erba di casa si scrolla pure lo spessore del Frosinone, sin qui leader di un campionato che ancora non conosce nitidamente il suo stesso destino. Due a zero secco, legittimato dagli eventi, di forza e rabbia, di decisione e fame. E’ il successo del sorpasso in graduatoria, che però non significa prima piazza. Ne approfitta, piuttosto, il Perugia di Camplone, nuovo favorito numero uno al salto di categoria senza passare per la pericolosa via dei playoff. La gente di Lerda si accoda, un punto dietro. E sembra in grado di poter ruggire sino in fondo, di dire la sua sino all’ultimo minuto. Ma il calendario è nemico e si beffa del Lecce, che può contare su una gara in meno, in confronto alla concorrenza: il turno di riposo, proprio all’ultima giornata, è un ostacolo troppo alto per essere bypassato con nonchalance. Nella domenica della verità, cioè, la realtà si racconta per quella che è: magari, la rincorsa può regalare il miglior piazzamento nella griglia degli spareggi di fine stagione. Ma non di più. Anche se il pallone non è scienza esatta e, in determinate situazioni, tutto può accadere. Tanto che, nel Salento, la religione impone di confidare ancora e di battersi sino a quando la matematica spiegherà l’evidenza. Ragionevolmente, però, la storia della promozione diretta sembra già scritta e il Lecce non fa parte di questa storia. La regular season si esaurisce troppo presto. O, meglio, la squadra ha guadagnato sostanza e continuità troppo tardi. Ma il futuro prossimo, oggi, non fa troppa paura. Gode di buona salute, questo Lecce. Le gambe stanno reggendo: non si spiegherebbero, del resto, un rush finale così sciolto e l’alta produttività degli ultimi tempi. E, se il fiato non manca, di solito funziona anche la testa: guadagnarsi l’accesso alla B in seconda battuta non è poi così proibitivo. Provarci è un diritto, più che un dovere.

lunedì 14 aprile 2014

Più Brindisi che Turris, ma non basta

Ci sono situazioni che si evolvono. E squadre che rientrano nel pieno del gioco, nel vortice della battaglia. Apparse, ad un certo punto, ragionevolmente lontane dalla storia di un campionato che stringe e che, domenica dopo domenica, seleziona sempre più e, invece, ancora arruolabili nel discorso dei playoff. Cioè di quello strumento utile per assicurarsi, chissà, una promozione di scorta. Il Brindisi è una di quelle squadre ripescate dal gioco un po’ perverso del girone appulocampano di quinta serie. E lo è pure la Turris: che, anzi, la mancanza di continuità delle altre big del torneo ha saputo recuperare persino nella corsa alla prima piazza. Da non credere: ma vero. Turris e Brindisi si salutano a Torre del Greco: e non c’è soluzione all’eventuale sconfitta. Per entrambi. Concetto sùbito assai chiaro ai campani, in gol molto presto, dopo otto minuti. Forse più pronti, o più spendibili nell’immediato, i corallini creano movimento all’interno dell’area adriatica, mentre l’apparato difensivo della formazione di Chiricallo si blocca ed assiste alla scena del vantaggio della gente di casa. L’atteggiamento di partenza di Gambino e soci è, nello specifico, difettoso: ancora una volta, peraltro. Ma, di lì in poi, c’è più Brindisi che Turris: sin dalla metà della prima frazione di gioco, si intravede una certa frenesia. E pure una certa dose di coraggio: mancata troppe volte, invece, nelle trasferte precedenti a questa. Kamano rintuzza, Pollidori spinge e Ancora sfugge: solo che il sigillo del pari non arriva. Il rovescio, l’ennesimo rovescio lontano dall’erba del Fanuzzi, finisce così per complicare il progetto: anche i playoff si allontanano sensibilmente, malgrado non sia ancora ufficialmente finita. Appena chiamato a spendersi un po’ più e un po’ meglio, però, l’organico si è puntualmente inchiodato: e questa è una verità inconfutabile. Al di là dei condottieri (con Ciullo e con il nuovo coach) e dei moduli utilizzati sin qui. Segno inequivocabile di un gruppo mai maturato sino in fondo, diciamo pure incompiuto. Lo pensa patron Flora, lo sottoscrive Chiricallo, lo sospettiamo tutti, da tempo. Adesso, a traguardo virtualmente compromesso, possiamo ufficializzarlo: senza timore di smentita. Il campionato, in occasioni come queste, non mente.

mercoledì 9 aprile 2014

Barletta, un anno sprecato. In tutti i sensi

Non è un torneo particolarmente affascinante, quello della terza serie nazionale. E conosciamo ampiamente le cause alla radice dell’effetto: retrocessioni bloccate, sequenza massiccia di match inutili, caso-Nocerina e altro ancora. Vero, la rincorsa del Lecce alla prima piazza, ad esempio, offre interesse nuovo e adrenalina di riserva. E la corsa ai playoff è sempre viva. Ma queste sono storie che animano la zona più nobile della classifica e che, di conseguenza, non coinvolgono tutta la popolazione affezionata al girone meridionale della C1. E, infatti, adesso ci preme di parlare dell’altra metà del mondo e, innanzi tutto, del Barletta. Che su queste colonne – colpevolmente, magari – abbiamo un po’ trascurato, in questi ultimi tempi. Primo, perché – appunto – questo è un campionato senza anima, che ci affretteremo a dimenticare. E, secondo, perché quello che avevamo da dire, sostanzialmente, è stato già scritto. Il campionato, cioè, avrebbe dovuto rappresentare (per la società e, dunque, per la piazza) la palestra ideale in prospettiva futura. Una palestra in cui guardarsi attorno, preparare la nuova stagione e, soprattutto, costruire le basi per un futuro un po’ più saldo. Puntando, ad esempio, sulla gioventù: magari proveniente dal proprio settore giovanile. Operazione, per la verità, in parte riuscita (parliamo di Guglielmi, ovviamente). Questo torneo, per capirci, avrebbe dovuto rappresentare il segmento di transizione tra ieri e domani. Anche se ricordiamo benissimo gli appetiti dell’ambiente e certe dichiarazioni di massima, indirizzate verso la partecipazione ai playoff. Che, tuttavia, la caratura dell’organico aveva – sin dall’avvio della stagione, cioè la Coppa Italia – escluso. Diciamo così, allora: a Barletta questi mesi sono stati utilizzati male. Anche perché un’ambiguità di fondo ha finito con il corrompere i rapporti tra il club e la sua gente, da sùbito. Perché il presidente Tatò si è dimesso presto, stanco di assalti verbali e contestazioni. Perché il numero uno della società si è defilato, rimanendo comunque ai margini: un po’ dentro, un po’ fuori. Perché la fiducia tra le parti si è incrinata, per sempre. Perché la distanza tra l’ormai ex allenatore (Nevio Orlandi, silurato da poco) e la tifoseria si è allargata eccessivamente, nel tempo. Perché la differenza di pensiero tra il plenipotenziario Martino (esautorato pure lui) e l’ambiente si è deteriorata assai. E per tanti altre motivazioni. Certo: il pubblico del Puttilli e la città, in generale, hanno sopportato a fatica la programmazione minima. O, se preferite, mal digerito il cambio in corsa di un progetto mai totalmente chiaro. Traditi, probabilmente, da quel vortice di umori che, spesso, fa deragliare qualsiasi pianificazione. Però, e uno dei problemi più insidiosi è proprio questo, brucia – e non poco – la prospettiva o la certezza dell’umiliazione. Umiliazione, ad esempio, sono quei sei gol sofferti ultimamente di fronte al Benevento, che poi hanno causato la deflagrazione in un contesto già precario, sintetizzato con una contestazione popolare rumorosissima e, infine, il defenestramento di Orlandi e Martino (a proposito: per stanchezza o per altro, la società ha gestito la situazione con qualche esitazione). Mentre, sullo sfondo, si agitavano (e si agitano ancora) gli spettri del fallimento: perché il club è sempre aperto a nuovi investitori (a costo zero, ripete Tatò), ma i possibili acquirenti dimenticano di formalizzare una proposta concreta. Dall’umiliazione, intanto, nasce il disagio. Dal disagio, sfociano i rancori. E, dai rancori, sboccia l’intransigenza della parte più calda del tifo. Quello che è accaduto proprio domenica, cioè, è assolutamente al di fuori del normale e della logica. Il Barletta gioca (e perde, ma non è una novità) a Pontedera. Nel corso della gara, si infortuna e perde conoscenza il capitano, Fabrizio Di Bella (diagnosi: trauma cranico): e, allora, proprio dalla curva occupata dai sostenitori del Barletta, si alza per tre volte un coro becero, che al ragazzo augura il peggio. E’ il segnale di un punto di non ritorno già toccato. Ed è, soprattutto, l’ufficializzazione di un anno sprecato. Alla fine del quale, invece di raccogliere qualcosa, occorrerà seminare. Nella migliore delle ipotesi, ovviamente.

martedì 8 aprile 2014

De Luca e l'improrogabile epilogo

Il derby con il Taranto è perso. E, con il derby, anche ogni oggettiva possibilità di promozione. Almeno quella in prima battuta. Perché, se non altro, la battaglia per inserirsi nella griglia dei playoff continua. Malgrado, adesso, i desideri del Monopoli non siano affatto blindati (Francavilla e Brindisi inseguono e sperano ancora). O tutelati: né dal calendario (gli adriatici, ad esempio, domenica riposano e poi incontreranno il Marcianise), né dal nuovo profilo psicologico del gruppo, adesso obbligato ad assorbire in fretta l’ultima mazzata e, quindi, a reagire. Sì, il derby si consuma senza gloria e l’ambiente monopolitano deglutisce molto male il responso del campo. Scagliandosi soprattutto sul condottiero della squadra, ritenuto il responsabile principale della prima caduta stagionale al Veneziani: per la formazione proposta all’inizio della sfida, più che per l’atteggiamento speso sul campo nella seconda parte della gara. Claudio De Luca, oltre tutto, al novantesimo dribbla l’appuntamento rituale sotto la curva. E il particolare non sfugge agli affezionati più intransigenti: anche perché l’episodio si nutre di qualche precedente che ha contribuito, nel recente passato, ad allontanare le posizioni del tecnico di Castellana da quelle della tifoseria. Che, peraltro, tributa alla squadra applausi sinceri. Questo passaggio, in realtà, ratifica lo sgretolamento di un rapporto già abbondantemente deteriorato. E che la situazione caotica venutasi a creare dopo la partita di Brindisi ha abbruttito. De Luca, inoltre, finisce per scontare le asperità di altre contingenze, come il diverbio avvenuto  proprio domenica scorsa in tribuna tra un suo parente stretto e alcuni supporters. Di certo, tuttavia, nella mattina di ieri si sparge la voce delle sue dimissioni: ma chi conosce un po’ il carattere del tecnico, fatica a crederci. Di fatto, però, la società decide di intervenire compiutamente: e, dal summit serale, sempre di ieri,  scivola una notizia abbondantemente prevista. Le strade si separano. E, ufficialmente, si tratta proprio di dimissioni: anche se resta forte la sensazione di una motivazione di comodo. Esonero oppure no, comunque, cambia poco. L’epilogo, alla piazza, è gradito. Forse pure inutile, ma forse no. Perché l’incompatibilità ambientale si è fatta, giorno dopo giorno, sempre più pressante. Perché, se ben sfruttato, il cambio di panca (arriva, nel frattempo Elio Cocco, sin qui responsabile della formazione Juniores) potrebbe inaugurare, in anticipo sui tempi, la pianificazione della stagione che verrà. E soprattutto perché, ad un mese dal traguardo, il club comincia seriamente a temere anche l’esclusione dall’appendice dei playoff: un accadimento che, oggettivamente, si trascinerebbe appresso il sapore del fallimento. 

Foggia, è festa

Giglio utilizza come sa e come deve il pallone giusto, il Poggibonsi si arrende e il Foggia acquisisce la certezza dell’aritmetica. Adesso, l’ammissione alla futura C unica è ufficiale. I xxx punti, ormai, sono inattaccabili: con tre giornate di anticipo. La classifica potrà consolidarsi ancora (la Casertana e il Teramo viaggiano una sola lunghezza sopra), oppure deteriorarsi un po’ (il Messina è due punti dietro, l’Ischia tre): nella peggiore o nella migliore delle ipotesi, però, non cambierà granché. Allo Zaccheria c’è atmosfera di festa e la festa può cominciare. La formazione di Padalino si affretta ad archiviare la pratica, copre il campo con decisione, detta il gioco e i ritmi, governa palla e partita e, infine, colpisce. L’opposizione dei toscani è ampiamente gestibile e il risultato non traballa mai. Tre punti e via, la tensione può sciogliersi nella grazia della promozione. Il fallimento e l’affossamento tra i dilettanti sembrano spettri lontani. Nello spazio di dieci mesi, in Capitanata si sorride per la seconda volta di sèguito. Prima il ripescaggio in Seconda Divisione, escamotage burocratico per aggirare un’altra stagione di confinamento in quinta serie e per dribblare il fastidio di concorrere, quest’anno, con troppe pretendenti al salto di categoria. E, quindi, l’affermazione sul campo: probabilmente, meno faticosa del previsto, eppure non meno dispendiosa, in termini di investimento e di energie nervose. Quanto basta per recuperare il terreno perduto dopo il fallimento del vecchio club di Casillo e per ricollocare il blasone in un angolo meno angusto. Passando per un resettaggio malinconico nelle modalità, ma tecnicamente utile. Il Foggia, in meno di due anni, è sostanzialmente risorto, azzerando i passivi di un tempo e riacquistando la dignità. Ricostruendosi un’immagine e impalcando le fondamenta per affrontare un futuro più solido. Ma, soprattutto, ricostruendo i rapporti con la città e la tifoseria. Non senza attraversare qualche momento di smarrimento e di fibrillazione. Non senza temere di inciampare sugli ostacoli di sempre, che sono propri dell’espressione calcistica di una realtà socialmente confusa ed economicamente debole. Non senza aggirare con astuzia qualche difficoltà di percorso: puntando anche sul coinvolgimento concreto della tifoseria, nel momento di maggior bisogno. Come quando servì promuovere una sorta di colletta, per garantirsi la fidejussione da allegare alla domanda di ripescaggio. Al momento in cui, cioè, il club decise di far sottoscrivere alla sua gente l’abbonamento per tre campionati di fila, introitando un po’ di contante. E, infine, non senza ricorrere al sacrificio personale dei suoi finanziatori (Franco Lo Campo, immediatamente in coda al match di domenica, ha quantificato in un milione le uscite certificate per guadagnarsi la terza serie). Foggia e il pallone, intanto, si riappacificano. Stringendosi attorno ad un allenatore che, nella foggianità, sembra aver coniato il proprio marchio di fabbrica e ad un organico più pratico che illusorio, compatto ed affamato, motivato e sostanzialmente costante, nel rendimento. Malgrado un avvio di campionato affaticato e osteggiato da amnesie difensive e dai tanti sistemi di gioco che si sono inseguiti. E, perché no, abbracciando l’intero organigramma societario, che - anche a dispetto delle apparenze - nel doppio salto ha sempre profondamente creduto. Puntando tutto (e rischiando non poco) sull’onerosa pratica di ripescaggio, l’estate scorsa. Operazione, quella, dai risvolti oscuri e pericolosi: ma, in definitiva, anche e soprattutto una scommessa vinta sugli scettici, noi compresi.

lunedì 7 aprile 2014

Il Taranto vola, il Monopoli s'inchioda

L’incastro dei confronti diretti è un puzzle goloso che lascia godere il girone H della quinta serie. Monopoli-Taranto è un altro tassello di questa lunga storia, ma non l’ultimo. Il futuro della gente di De Luca e della formazione di Papagni, ma pure della larga concorrenza, passa da questi novanta  minuti. Sugli spalti la gente risponde, dribblando vincoli di sicurezza e agibilità parziale della struttura. Jonici debilitati dalla giustizia sportiva (Molinari, Ciarcià e Clemente fermati per un turno), adriatici immutati nella sostanza e negli uomini (ancora fuori Pedalino e Corvino, mediana nuovamente rafforzata da un difensore d’estrazione come Castaldo, sin qui assolutamente convincente nel nuovo ruolo): e si parte. Con circospezione, ma si parte. La manovra del Monopoli ci mette un po’ a sgrossarsi, ma lentamente si assicura più quantità e intensità e, nella fase centrale della prima parte del match, si dota di maggior qualità. Montaldi, vestito da prima punta, esegue i movimenti giusti e, ai suoi fianchi interagiscono con profitto Di Matera e Camporeale. L’assenza di un artigliere di peso, che la tifoseria non decodifica con favore, sembra serenamente bypassata.  Il Taranto si copre diligentemente, difendendosi a cinque: le esitazioni spuntano dai limiti dei singoli, più che dai difetti del reparto. Comunque, l’assetto di presidio tiene. Le ripartenze, tuttavia, sono puntuali: anche se necessita maggiore volontà di pungere, perché un pareggio serve a poco. Lanzillotta e compagni finiscono per spendere qualcosa, invano. La brillantezza, cioè, si eclissa abbastanza presto. E, a fronte di un calo di lucidità, il calcio prodotto si sporca di falli e ammonizioni. Ed è proprio adesso che Papagni, tecnico di buon senso ed esperienza, intuisce le difficoltà dell’avversario, leggendo bene nelle pieghe della gara e rivedendo l’assetto di gioco. Muwana avanza in mezzo al campo, Properi si accentra in terza linea e lo scacchiere si trasforma in un 4-4-2 pratico e furbo. Irrobustito, ma anche più reattivo, il Taranto cresce prima dell’intervallo e, agli albori della ripresa, coglie il vantaggio con Balistreri, monetizzando la prima vera (ed unica) occasione del match. Attendere il momento e colpire: certe volte, basta solo questo. Il Monopoli, allora, si sgonfia e si appiattisce. L’iniezione di uomini a forte attitudine offensiva (Pedalino e Corvino) non paga nell’immediato. Il forcing si materializza solo più in là, prima dei titoli di coda: attorno al novantesimo, peraltro, Montaldi firma il pari, ma l’intervento arbitrale gli invalida la conclusione con motivazioni oscure. Quindi, lo slancio generoso del portiere Mirarco si traduce in una traversa beffarda. Vince il Taranto, senza sottrarre nulla, al culmine di una prestazione priva di orpelli, vergata dal sacrificio e dalla scaltrezza. Che vale, innanzi tutto, la vetta del campionato, tuttora illeggibile. Perde il Monopoli, scomparso nella parte più delicata di una partita da non fallire e, invece, decisiva. Ormai fuori dai giochi per la prima piazza. Con un dolore da elaborare e la rabbia popolare da addomesticare. E con un tecnico, adesso, troppo distante dalle posizioni della tifoseria. Il fosso scavato tra De Luca e l’ambiente è diventato, nel tempo, un burrone. Perché un buon campionato, questa volta, non riuscirà a lenire gli appetiti di una squadra costruita per vincere. Perché, nel pallone, chi non vince finisce irrimediabilmente per perdere. E perché il coraggio, in fondo, è una qualità che la gente finisce sempre per apprezzare, al di là dei risultati. Quel coraggio mancato troppe volte, lontano dal Veneziani. E, affermano con veemenza i detrattori, anche ieri, sull’erba di casa.

domenica 6 aprile 2014

Manfredonia, il trend di sempre

Se la piazza sbuffa, s’impressiona, si agita e preme, il club si difende e si protegge. Dunque, si adatta. E cede alle pressioni. Un po’ quello che, recentemente, è accaduto a Manfredonia, microcosmo in crisi dopo un avvio di stagione complessivamente incoraggiante. E, successivamente, angustiato dai mali di stagione e di solvibilità. Che, di fatto, hanno consigliato una politica di contenimento dei costi di gestione, tradotta a metà del cammino in una rivisitazione del materiale umano a disposizione del coach. La rivoluzione di dicembre, in sostanza, ha rimodellato l’organico, sottraendo al tecnico Cinque qualche certezza accatastata nel percorso, la solidità di base della squadra e qualche colpo utile nei momenti più ardui. Nella manche di ritorno, cioè, il Manfredonia si è un po’ perso, senza rincontrarsi mai compiutamente. Scalando dalle posizioni a ridosso dell’aristocrazia del girone appulocampano di serie D a quelle meno rassicuranti del quartiere playout. In cui, ora, occorre misurarsi con avversarie psicologicamente già ben adattate alla battaglia, rafforzate a lavori in corso e, evidentemente, più motivate. Mentre, sul golfo, il timore si è già abbondantemente diffuso. Cinque, come molto spesso accade in casi come questo, in realtà ha intanto già pagato con l’esonero, planato meno di due settimane fa. Squadra un po’ ferma, un po’ molle, impaurita. E ambiente riscaldato: quanto basta per convincere il club che qualche soluzione andava pur perseguita. Al suo posto si è seduto Max Vadacca, fantasista di un tempo (anche a Manfredonia) e allenatore alla prima proposta importante. Subito castigato, all’esordio, in casa, dal San Severo: in un derby che è riuscito ad invertire posizioni e prospettive di vinti e vincitori (chi inseguiva, adesso si fa inseguire e viceversa). E, sei giorni dopo (cioè ieri, nell’anticipo), premiato nella trasferta di Pozzuoli. Dove il Manfredonia ha, se non altro, riconquistato ritmo ed energie mentali, sfruttando la cattiva gestione di gara della Puteolana e il carattere ammorbidito di una squadra, quella campana, assolutamente irriconoscibile. Mettendoci, tuttavia, qualcosa di proprio, almeno sul piano dell’intensità e della sostanza. Nonostante i sei under schierati tutti assieme dall’inizio , tra cui il ’97 Terminello (la felice esperienza maturata con Granatiero, peraltro già passato alle giovanili della Juve, spinge ad insistere).  Anche se poi, facendo due conti, si scopre quello che i numeri ci avevano lasciato intuire, già all’epoca del governo Cinque: il Manfredonia sa cautelarsi e poi ripartire con perizia, ma zoppica appena è lecito attendersi di più in fase di possesso, ovvero quando la logica obbliga il modulo ad impossessarsi del match. I dodici punti soltanto guadagnati al Miramare e i diciannove collezionati lontano da casa spiegano a sufficienza: tanto da sospettare che il problema è strutturale. E che il cambio di gerenza tecnica, al di là delle competenze di Vadacca e della bontà del lavoro che il nuovo allenatore saprà applicare, era probabilmente solo una necessità di routine.