venerdì 29 febbraio 2008

Il rischio necessario

La politica della valorizzazione di un patrimonio tecnico dichiaratamente più giovane (e del contenimento dei costi di gestione) è una strada necessaria: proprio là, dove non transitano mecenati e gruppi finanziari poderosi, dove la quotidianità è il pericolo, è il pensiero fisso. E’ una necessità intelligente: perché in provincia è difficile resistere. Ed è un percorso persino redditizio, soprattutto dalla terza serie in giù: purchè si miscelino buon senso, pazienza, coraggio, lungimiranza. Purchè esista un programma. Non è detto, però, che questa politica paghi: cioè, occorre rischiare. Scommettere su se stessi. Accettare la sfida. Anche perché, alla distanza, non c’è alternativa. Né per la società, né per la tifoseria. Altrove, ormai, il concetto si è radicato e consolidato. A queste latitudini, dove la pressione popolare conta e influenza, ancora no. E l’idea naufraga: diventando l’anticamera del burrone. E’ successo recentemente a Martina. E sta accadendo anche a Manfredonia. Dove la gente si è stancata di rischiare e attendere, contestando apertamente il progetto e, soprattutto, la classifica. E dove il presidente Ricciardi è disposto a salutare, lasciando gratuitamente il club. Il problema è che, dopo Ricciardi, potrebbe non esserci nessuno. Come non potrebbe esserci nessuno dopo Cassano, a Martina. E, allora, tre (a Manfredonia) o sei anni (in Valle d’Itria) di C1 potrebbero essere diventati un lusso inutile, pronto ad evaporare. E la C2 un palcoscenico neppure troppo scontato. Qualcuno, intanto, ha ipotizzato: meglio l’Eccellenza da protagonisti che una C arrugginita. Non sottoscriviamo: se non altro, perché l’Eccellenza (a vincere) costa quasi (o quanto) un campionato di C. Chidetelo al Barletta, al Monopoli, al Brindisi: che l’Eccellenza, ultimamente, l’hanno vinta. O al Casarano di questi tempi e al Francavilla della stagione passata, che invece non hanno superato l’esame. No, meglio la C2. Disputata con dignità e, magari, in economia. Nel rispetto della dimensione delle realtà di casa nostra.

Foggia, una pausa di troppo

Il Foggia, oggi, è forza d’uto, macchina lubrificata, collettivo rampante. E pure la formazione che, nel proprio girone, ha maggiormente guadagnato dalla campagna di rafforzamento invernale. Da Pagani arriva un’altra affermazione che racconta fedelmente la felicità di un momento storico più o meno coincidente – parlano le statistiche – con la nuova gestione tecnica di Galderisi (quattro dei cinque successi conscutivi piovono dopo il cambio di panchina). Mentre comincia ad esplodere il rammarico per il tempo perso, pr le precedenti occasioni sprecate. Sì, da domenica il Foggia è ufficialmente in zona playoff, per la prima volta. Grazie ad un calcio concreto, ma anche lucido, razionale. L’esatto contrario del calendario di un campionato che si ferma ancora, per oscure motivazioni. Infrangendo nuovamente i ritmi appena ritrovati, sfilacciando la naturalezza della sua stessa evoluzione. No, questa nuova pausa che incombe deprezza la terza serie e, innanzi tutto, non accontenta il Foggia.

mercoledì 27 febbraio 2008

Barletta, vincere con lentezza

E’ un po’ che il Barletta lascia un tempo, il primo, all’avversario. O, comunque, che non sembra il Barletta, cioè il leader del campionato. E’ un po’ che il Barletta si sveglia con lentezza e appare svogliato. Certo, è un po’ che il Barletta coglie risultati puntualmente gratificanti: ma il dato comincia a preoccupare. Proprio adesso che il ravvicinamento dell’Aversa è divenuto più che sospetto e che si annuncia il rush finale. Anche a Lavello, a casa di una formazione snaturata dalle esitazioni societarie, giovane, demotivata e inadeguata alla quinta serie, la gente di Chiricallo zoppica in avvio. Bussando (gol di Laviano, su penalty scovato da Romano, al minuto trentadue) dopo una partenza contratta e nervosa. E poi vincendo largamente (quattro a zero). Ma meno largamente, forse, del previsto: anche se questo, alla fine, non conta. I tre punti, cioè, arrivano ugualmente: ma, sotto alcuni aspetti, si assenta quel Barletta risoluto che servirebbe. E certi segnali, l’esperienza insegna, non andrebbero sottovalutati.

La beffa di Plasmati

La vendetta può abitare nelle parole, anche in un sola frase. E Marcello Pitino, ex diesse del Martina, rivendicava una vendetta. Una piccola vendetta. Lui è l’ingegnere del vecchio Martina, quello che non c’è più, azzerato dalla rivoluzione di dicembre e di gennaio, dalla rivoluzione di Cassano, il patron. Lui ha dovuto fuggire, scomparire. E bersi il malumore e le imprecazioni della piazza, del suo vecchio club, dei suoi compagni di avventura di un tempo. Ha dovuto interrompere il mandato, pagando errori evidenti e una cattiva gestione. L’altro, invece, è Gianvito Plasmati, che lavora per il Taranto e che, nel derby, infila due volte il Martina. Dedicando un sigillo proprio a Pitino, suo sponsor a Ragusa, a Catania e poi a Foggia. Cioè, un amico vero. Il legame è saldo, la dedica è sincera: ancorchè mirata. Per amicizia, si può. Immaginiamo che Pitino abbia gradito. E che il Martina si sia rinzelato. Normale. E non sappiamo cosa ne pensi Evangelisti, il nuovo consulente di mercato della società di via D’Annunzio: che, di Pitino, ne ha rilevato la scrivania. Che, del Taranto, ha peraltro curato gli interessi, sino a poche settimane prima. Impostandone le ultime campagne acquisti: nelle quali Plasmati, sempre inseguito, non fu mai catturato. Una dedica, sì, può diventare vendetta. E la sconfitta (grave, impietosa, umiliante) può trascinare la beffa.

martedì 26 febbraio 2008

Nervi scoperti

Il Gallipoli rallenta, pure a domicilio. Anche se dividere la posta con la Lucchese è un’infamia: ma solo una seria probabilità. Però, lo sappiamo, la gente di quest’angolo di Puglia è abituata a vincere: e, quando non vince, può sentirsi in dovere di contestare. Più o meno massicciamente: ma il prodotto non cambia. E poi il presidente Barba è passionale ed esigente, portatore sano di pressioni. Bonetti, il trainer, è invece un bresciano un po’ freddo e distaccato che difende il proprio lavoro senza offrire troppi contributi alla discussione. Adombrandosi, se è il caso. E, infine, il diesse Pagni è un calabrese che, spesso, parla chiaro e che, perciò, non affigge manifesti. Apparendo in prima persona. E preferendo le frasi ruvide. Il problema, peraltro, è che il pareggio con la Lucchese segue la pessima sconfitta di San Giovanni Valdarno. E, allora, a match concluso, Bonetti critica i contestatori, Pagni difende la tifoseria e distribuisce segnali feroci alla squadra e al suo condottiero, Bonetti replica e restituisce il malanimo al mittente, raccomandandogli di pensare agli affari suoi e, possibilmente, di crescere. E, almeno per una volta, Barba interviene per sancire la fine delle ostilità. Il nervosismo, è chiaro, è un pessimo consigliere: da sempre. Ma, intanto, sorge il sospetto che certe dichiarazioni non nascano per caso e neppure all’improvviso. E che svelino un malessere strisciante. Peggio: un cattivo flusso della comunicazione all’interno della stessa struttura e un’incompatibilità di caratteri sin qui repressa, oscurata, devitalizzata: talvolta dai risultati e, talvolta, dal buon senso. Ma, alla fine, esplosi. Quando il buon senso è minato dai risultati: diversi da quelli creduti.

Grottaglie, stop digeribile

L’Aversa gioca e lascia giocare. Ma, quando gioca, sa giocare. Con sicurezza e personalità. Mostrando la propria superiorità: senza nulla voler sottrarre alle qualità e alle potenzialità del Grottaglie. Che, immediatamente sotto di due gol, soffre una sconfitta franca e severa. Ma non c’è inganno: il risultato ci sta, anche in virtù delle circostanze (Chiesa, fisicamente debilitato, recupera: ma non completamente) e degli episodi (Laghezza è incerto e decisivo nell’azione dello zero a uno; Pastano si fa ammonire due volte), e non muta i destini del torneo e di due sue protagoniste. Perché l’Aversa che torna a lievitare rimane il candidato primo alla C2, al pari del Barletta (e questa è un’opinione), e il Grottaglie continua a galleggiare nell’aristocrazia della D (è un dato incontrovertibile). Dispiace, magari, che che la squadra gestita da Del Rosso cada in un match teoricamente a lei congeniale, considerate le proprie caratteristiche: dove il calcio, almeno per una volta, non è un intruso. Ma, dicevamo, non c’è inganno. E neppure lo spazio per un’eccessiva delusione. Certe sconfitte, alla fine, possono essere anche digerite. Più facilmente, se non altro.

lunedì 25 febbraio 2008

La parola di Cari

Marco Cari tornerà a spiegarsi, a confrontarsi con gli operatori dell’informazione. Il personalissimo, lungo e scomodo (più per il coach, ci sembra) silenzio stampa del tecnico del Taranto si esaurisce immediatamente dopo il derby con il Martina, questo pomeriggio. C’è una nota ufficiale sul sito web della società: e la decisione è strategica. Se non altro, perché Cari si è accorto di aver perso il contatto dalla realtà mediatica jonica e, soprattutto, gli ultimi scampoli di considerazione. Perché non c’è testata che lo ritenga immune da responsabilità sempre più pesanti. E che sia disposta a concedergli nuova fiducia. Particolari che, in una piazza come Taranto, contano. E come: malgrado a Blasi, cioè al suo datore di lavoro, non manchi la personalità per confermare e difendere un dipendente sempre allineato e, dunque, sufficientemente coperto. Cari tornerà a parlare: aderendo ad una richiesta insistita della stampa. Nel suo stesso interesse, a questo punto. Ma potrebbe essere tardi. O inutile. Perché il feeling tra le due parti non è mai sbocciato seriamente. Né ha posseduto i modi per farlo.

sabato 23 febbraio 2008

Quattro partite che suggeriscono qualcosa

L’acuto di Lanzafame, a primo tempo in corso, aveva autorizzato il Bari a confidare nel quarto successo di fila. La storia, invece, racconta il contrario e la gente di Conte, a Mantova, raccoglie solo un pareggio: che, intanto, fortifica i progressi individuali e collettivi della squadra nell’ultimo mese, confermandone la tenuta comportamentale e rafforzandone la convinzione. Il punto potrebbe persino (e ingiustamente) afflosciare qualche entusiasmo strappato all’apatia tradizionale dell’intero ambiente, ma va salutato con soddisfazione piena: e non solo per quell’episodio in cui il direttore di gara ha privato Gillet e soci di un penalty apparso consequenziale agli avvenimenti del campo. Anzi, questo Bari sembra che abbia conquistato la mentalità sulla quale fare affidamento: nei momenti migliori e in quelli peggiori del campionato. Impressione che non ci fa scomodare il concetto di miracolo, perché i miracoli non fanno parte del calcio. E, comunque, perché ai miracoli non crediamo. Crediamo, piuttosto, nei risultati: che dicono di un Bari più attento, meglio organizzato, disposto a graffiare e a offendere. Dunque, anche a rischiare. Un Bari che, dicevamo, ha incontrato i progressi dei singoli che l’aiutano ad arrampicarsi in classifica e che ha pure ritrovato certi protagonisti, ultimamnete scomparsi sotto il peso delle pressioni, della critica e delle nostalgie. Non per questo, però, ci abbondoneremo all’errore di ritenere che tutte le distonie sono sconfitte o definitivamente allontanate: ma quattro risultati importanti di sèguito, se non edificano la continuità assoluta, qualcosa suggeriscono.

E ora Brindisi insegue i Barretta

L’arricchimento del materiale affidato alla cura di Massimo Silva, il lavoro quotidiano e il processo di rasserenamento della squadra portano al Brindisi due vantaggi. Il primo è quello più facilmente spendibile: una delle vecchie favorite al piazzamento di maggior prestigio nel girone H della quinta serie è rientrata nel ristretto quartiere dei playoff, che è molto meglio dell’anonimato. Riacquistando, oltre tutto, l’umore giusto: e il pari di Aversa, domenica passata, ne testimonia lo spessore. Il secondo è forse meno visibile, ma più prezioso: l’opinione pubblica e, più in generale, la città sembrano essersi ricordati che il vertice societario – cioè i fratelli Barretta – sono tuttora formalmente dimissionari. E, perciò, meritevoli di essere coccolati. E invogliati a proseguire il discorso, oltre il mese di giugno. Potenza dei risultati: che sanno cancellare la patina di apatia e riconsegnare la speranza. E’ noto: il carro dei vincitori, quando passa, deve accogliere chiunque. Anche se, in questo caso, il problema immediato non è vincere. Ma sopravvivere. E Brindisi, da questo punto di vista, ora deve rincorrere i Barretta. Che, un giorno, gridarono aiuto. Quel giorno, però, il Brindisi era brutto, stracciato e perdente. E le grida passarono quasi inosservate.

venerdì 22 febbraio 2008

Silenzio, il Monopoli si chiude

Il silenzio stampa è l’autorepressione che può corazzare: ma che, talvolta, può deprimere. Ed è soprattutto il termometro del disagio. Ci arrivano in molti: e non è detto che, dopo, rinsaviscano. C’è arrivato anche il Monopoli, che brucia pure le motivazioni spremute dal cambio di panchina. Fermandosi ancora (terza volta consecutiva) nel pieno del torneo e ritrovandosi sul bordo dei playoff. Soltanto poco tempo fa considerati acquisiti. O quasi. Il problema, dunque, è serio, come avevamo prospettato. La squadra si è involuta, dal punto di vista comportamentale. E subisce parecchio, ultimamente. Lasciando trasudare nervosismo e scadimento nelle operazioni di presidio. Accusando cali di concentrazione, di tensione. La proprietà del club, oltre tutto, sembra essersi un po’ arroccata attorno a se stessa e i rapporti con l’esterno non appaiono fluidi. Anche perché circolano voci incontrollate (su presunti problemi di liquidità) che il presidente Ladisa respinge con stizza. Non è il momento migliore, proprio no. Che, però, non può circoscriversi esclusivamente alla lunga lista degli indisponibili. Come coach Trillini fa intendere, catechizzando i suoi uomini in un colloquio privato particolarmente franco: ultimi scampoli di parole prima di un silenzio che appesantisce l’atmosfera.

giovedì 21 febbraio 2008

La prova fallita dal Gallipoli

Come non detto. Il Gallipoli aveva aperto una porta, che ha subito socchiuso. E, forse, aveva esageratamente illuso. Consegnandosi con trasparenza alla lotta per la leadership. Che, sia chiaro, continua, malgrado il rovescio scabroso di San Giovanni Valdarno: soprattutto perché la crisi si impossessa della Salernitana. Aveva illuso e aveva volato: alto. Conquistando il passo sicuro anche lontano da casa: non più di quindici giorni prima. Attendendo tuttavia con ansia una prova della definitiva maturità raggiunta. Prova fallita, proprio domenica scorsa. E raccolta con stizza da Barba, il suo presidente: sconfitto dalla passione che arde e graffiante nelle parole. Che si acquieteranno appena smaltita la rabbia. Ma il naufragio toscano, se non compromette il futuro, rilancia i dubbi sul profilo caratteriale della formazione di Bonetti, smontata da un avversario disperato e dalle sue stesse fibrillazioni nervose (si chiude in nove contro undici, a fronte di due cartellini rossi). Proprio Bonetti, intanto, contesta le voci sotterranee e rivendica il pieno controllo della situazione e della squadra, così come la bontà della tenuta atletica dei suoi uomini. Oggi, però, c’è un nuovo nemico, sulla strada del Gallipoli: una pressione più grande, alimentata dalle circostanze di classifica e da un appetito ingigantitosi quasi all’improvviso. Con il quale è difficile patteggiare. Un appetito che si è impadronito e continuerà a impadronirsi anche di Barba. Soprattutto di Barba. Che difficilmente perdonerà ancora esitazioni e disagi. E, allora, i chiarimenti nel chiuso dello spogliatoio, come quello di ieri, non basteranno.

mercoledì 20 febbraio 2008

Florimbj, Camplone, l'orgoglio

Ben venga Florimbj, a Martina: il nuovo tecnico ha esperienza e modi bruschi, quando servono. E alla disperata truppa che fu di Camplone una figura così servirà di sicuro. E, se qualcuno dissentirà, fa niente: non c’è (altro) tempo da perdere. La speranza possiede ancora poco spazio. A questo punto, non si può spigolare troppo sul problema. E’ necessario tentare anche questa strada. E poi, quali sarebbero state le alternative? Ben venga Florimbj, a Martina. Uomo da situazioni disperate, si dice (e chissà se il trainer è contento di quel che si dice). Ben venga il carattere, il coraggio e tutto il resto: che questa squadra, probabilmente, non ha. Come Camplone ha sommariamente compreso, in un paio di settimane di lavoro. Dichiarandosi sconfitto e lasciando la panchina dopo la brutta storia del match con l’Ancona. Rinunciando a quanto non aveva rinunciato prima. Esoneratosi (o costretto a farlo? Forse non lo sapremo mai) perché la campagna di rafforzamento non ha rafforzato troppo il progetto. O perché, magari, chi l’ha condotta (con pochi mezzi, in poco tempo) non ha gradito l’appunto. O gli appunti. Quel Camplone che ha captato l’atmosfera, realizzando che il suo turno di lavoro può ritenersi terminato. Sganciandosi proprio quando la squadra si è rimaterializzata: con altri nomi, ma rimaterializzata. Dopo essere rimasto sulla nave che stava per affondare e forse era già affondata e nessuno voleva crederlo. Ecco, per questo – se non altro – Camplone va ricordato con simpatia. E con rispetto. Non ha abbandonato il Martina nel suo momento peggiore. Sperando, è chiaro, in un futuro migliore: ma non l’ha abbandonato, quando tutti fuggivano o erano obbligati a fuggire. Garantendo quello stesso futuro con un gruppo di giovani volenterosi e assoldati quasi per caso. Non ha abbondanato il Martina, Camplone: pur potendolo fare. E senza scandalizzare nessuno. E ci piace pensare (perché ne siamo convinti) che la salvaguardia dello stipendio, quella volta, non c’entrasse. Che l’orgoglio, talvolta, valga ancora qualcosa.

La mala ora di Barasso

Otto reti scomode e, talvolta, dolorose in quattro gare: quelle sofferte dal Taranto. E subite da Barasso: dal momento del recupero della maglia da titolare in poi. Dati inoppugnabili. E casualità pesante: soprattutto se supportata da qualche incertezza. Come quella di Pescara, domenica. E come quella dello ”Iacovone”, sette giorni prima. Antipatica coincidenza: soprattutto considerando l’ottimo stato di forma di Faraon, cioè chi a Barasso ha dovuto cedere il posto. Sotto la pressione del portiere campano, incupito e scontento. Ma, alla fine, confortato (e sostenuto) dalla società. E, dunque, dal tecnico. Che in squadra l’ha ricollocato e conservato, malgrado la cattiva pubblicità delle ultime uscite. Barasso, però, rischia di bruciarsi. E di diventare un caso più spinoso di quello che sembra. Se non altro, perché ha ulteriormente allontanato il coach dalla tifoseria e dalla stampa. Quella stampa che, diciamola tutta, ha scaricato Barasso: al di là dei demeriti accumulati sul campo. Perché Barasso è lo stesso protagonista di una vicenda mediocre, in cui rilasciò un’intervista ruvida per poi smentirla e essere, invece, smentito dai fatti reali e inchiodato dal suo stesso scadimento comportamentale. Per il quale, adesso, sta pagando il conto. Puntualmente. Interamente.

lunedì 18 febbraio 2008

La logica, al di là di Camplone

Non bastavano i dubbi, i timori e le ansie faticosamente assorbite sin qui. Né una formazione di partenza inattesa, da contrapporre all’Ancona del minimo indispensabile: dove non c’è spazio per Doumbia, Fattori e Ceccarelli, tre tra i sedici volti nuovi di gennaio, dirottati in panca o in tribuna. Perché il Martina accusa immediatamente lo svantaggio che segna e instrada il match, su un calcio di punizione legittimo (diffidate dell’opinione contraria). Perché Montresor, tra i pali, non sa accattivarsi la fiducia dei compagni di squadra e della gente (ma era proprio necssario trascurare l’affidabilità di Murroni?). Perché il colpo di testa di Piccolo riesce solo a strisciare la trraversa, sullo zero a uno. Perché, abbastanza velocemente, la squadra si sgretola: cedendo definitivamente entro la fine della prima frazione di gioco. Perché Gambuzza non vede un avversario libero davanti alla porta e lo serve di un assist delicatissimo. Ma il vero problema (abbondantemente previsto e giustamente temuto) è una squadra priva di qualsiasi coordinata: da sistemare, cementare, definire. Lottando contro il tempo: che, effettivamente, non c’è (dieci partite ancora e la regular-season si chiude). E, allora, occorre ragionare partendo da un presupposto amaro: il Martina è già in C2. Necessita prepararsi all’eventualità possibile, possibilissima. E abituarsi all’idea. Quello che arriverà in più, se arriverà, sarà tutto guadagno preziosissimo: o la congiunzione di troppi episodi favorevoli. E’ il discorso più logico che possiamo spendere. E anche il più serio: per non illudere e non illuderci. Piaccia o non piaccia. Con o senza Camplone, tecnico al capolinea. E anche oggettivamente sfibrato da una situazione irreale senza soluzioni visibili.

L'altro Bari

L’altro Bari è quello dei tre successi consecutivi, dei nove punti in una settimana, della dignità recuperata, della serenità riabbracciata, della fiducia riacquisita, delle motivazioni blindate, dei suoi protagonisti riscoperti. Prendete Santoruvo: voleva espatriare, è rimasto. Veniva contestato, ora è un punto di riferimento: della squadra, del prossimo futuro. Si era intristito, adesso segna. Puntualmente. E, oltre tutto, gol pesanti, perché decisivi. Anche a Ravenna, timbrando il due a uno. L’altro Bari è quello che viaggia sull’onda dell’entusiasmo. Sconosciuto, sino a poche settimane fa. Ma l’entusiasmo non si trova per caso: occorre cercarselo, costruirselo. Forse è questo il merito fondamentale di Conte, il nuovo nocchiero. O forse no: perché l’entusiasmo si accoda ai risultati. E i risultati arrivano soprattutto con il lavoro. E con le prestazioni dei singoli. Quelle di Lanzafame, rampante di qualità. O di Kamata: uno arrivato a gennaio, che ha dotato la squadra di corsa e accelerazioni, ma anche di fantasia. Un ingrediente che, al Bari, mancava: insieme ad altri, per la verità. Però, l’aria è cambiata. Forse è questo uno dei segreti. Sempre che esista un segreto. E sempre che il Bari non riesca, ancora una volta, a distruggere i progressi compiuti. In nome di quell’autolesionismo che, negli ultimi tempi, l’ha marchiato, deviato, condizionato, accompagnato. Preferiremmo attendere ancora un po’, prima di fidarci completamente. Ma, intanto, l’ambiente comincia a pensare positivo. L’ultima volta, è accaduto la scorsa estate. Ma non è servito. O, più semplicemente, non è bastato. Ora, sì, l’atmosfera è diversa. E’ necessario lasciarla durare.

sabato 16 febbraio 2008

Il Lecce risponde

Corvia, un rinforzo di gennaio, e Abbruscato affondano l’Avellino e riconducono il Lecce sulla scia del Bologna e del Chievo, sgranando quelle esagerate e maligne sensazioni e sanando la condizione di leggero disagio conosciuta a febbraio (quattro punti in tre partite: due giocate in trasferta, però). Riaccompagnando la squadra di sempre: quello dell’enorme potenziale offensivo, della volontà ferrea, dell’essenzialità spendibile sempre e comunque. Quella che, forse, sembra assorbire la stanchezza e patire le critiche. Apparendo talvolta in affanno, in debito di lucidità. Ma possente e fredda. Perché quelle sono le caratteristiche (e le garanzie) del collettivo. Che prevedono tributi di sofferenza (inevitabili per chiunque, tuttavia) e un passo cadenzato nel tempo: che un periodo limitato di minor prolificità non può ragionevolmente scalfire. Che, intanto, viene puntualmente assicurato: malgrado tutto. Il Lecce risponde ancora una volta alle avversità del percorso: sbuffando, ma applicandosi con puntiglio. Il match di oggi, da questo punto di vista, incuriosiva. E il gruppo di Papadopulo, complessivamente, non delude. Consigliando gli osservatori a scommettere sul suo campionato. Un campionato su cui Abbruscato e soci credono fortemente: si vede, si sente. Consapevoli che i destini si compiono tra aprile e maggio. Quando occorrerà esserci: al momento giusto, con il morale migliore, con nervi distesi e autorevolezza. Quando basterà dimostrare di essere agganciati al sogno. Esattamente come adesso.

Il derby e le soluzioni estreme

C’è una città (Taranto) che attira tutti i problemi possibili e che si arrovella attorno. C’è uno stadio dimezzato (allo “Iacovone” possono accedervi meno di quattromila persone: ricordate la Legge Pisanu?), lugubre e ferito. C’è una curva (la “Nord”) chiusa d’autorità dalla giustizia sportiva dopo i fatti della gara persa a tavolino contro la Massese. C’è una tifoseria stizzita che deve cambiare settore (dalla curva alla gradinata, oppure alla tribuna) e che, di fatto, non può: perché gli abbonati di curva sono tanti e la capienza ufficiale del resto della struttura non permette di accoglierli tutti. C’è una società avversata dalla piazza che permette il travaso della clientela chiedendo un contributo ulteriore, che si assomma al prezzo dell’abbonamento (di curva) già pagato. Ci sono le forze dell’ordine che proibiscono al Taranto di aggirare l’ostacolo e di consentire l’ingresso ad un numero sempre superiore di tifosi in gradinata. Ovviamente, c’è una gradinata agibile a metà: e la metà non agibile è circoscritta da transenne. E c’è una parte di tifoseria che abbatte le transenne (prima dell’ultimo match, quello di domenica passata) per guadagnare lo spazio proibito. La giostra del disagio gira e non si ferma. Oppure sì: perché interviene l’Osservatorio Nazionale sulle manifestazioni sportive del Viminale. Che vieta al pubblico (a tutto il pubblico: quello abbonato e quello no) il derby con il Martina, prossimo impegno interno della squadra di Cari. Optando per la soluzione più scomoda, più sgradita. Alla società, alla tifoseria, alla città. E anche ai sostenitori avversari. La soluzione più estrema. Forse anche per quella più ingiusta. Ma anche per la più scontata. Esattamente quella che ci attendevamo. Quella che assicurerà un nuovo pacchetto di risentite polemiche. Ormai l’unico carburante sicuro del calcio tra i due Mari.

venerdì 15 febbraio 2008

Martina, agonismo cercasi

Quel che resta del campionato del Martina sarà un cammino di pietra, di sofferenza. Comunque finisca. Era scritto, è inevitabile. Reinventare una squadra è un’operazione troppo ardua: più di quanto la speranza lasci credere. Un’operazione che pretende fiducia e pazienza: e, che, digrigando i denti, può concludersi felicemente. Oppure naufragare. Niente di più e niente di meno che una scommessa. Quella che la tifoseria, probabilmente, non vuole accettare: e che, invece, va incoraggiata. Perché non esiste un’alternativa. A San Benedetto del Tronto arriva la sconfitta (netta, prevedibile) e gocciola la disapprovazione dei supporters, irritati. Ragionando per bene, però, la contestazione è affrettata ed ingrata: se il motore del Martina funzionerà, lo fara più avanti. Pretendere adesso quello che non si può pretendere è iniquo. La delusione popolare, tuttavia, potrebbe aver poggiato le radici (anche) nell’atteggiamento remissivo della squadra di Camplone: e, allora, può essere decodificata e compresa. Non è lecito pretendere dal Martina, ora, manovra e lucidità. Il coraggio, la concentrazione, l’agonismo e il cuore, però, sono dovuti. Da sùbito. Perché la situazione contingente reclama gli attributi. Anche e soprattutto se una squadra è in costruzione.

giovedì 14 febbraio 2008

Il Bari scopre il carattere

Settantott’ore bastano per rilanciare il Bari. Che non impara ancora ad apprezzarsi appieno, ma che – almeno – allontana certe ansie. Il successo di Vicenza, ottenuto sabato, aveva saggiamente dimenticato di illudere e, magari, di fuorviare: rivelandosi, tuttavia, più sincero di altri. Perché ieri, sull’erba di casa, l’acuto di Santoruvo (al novantesimo) ha piegato il Piacenza, concorrente diretto dei quartieri bassi della classifica. Due partite, sei punti, più sei dal quart’ultimo gradino: ma, ovviamente, il problema (la salvezza) non è affatto risolto, né gli imprevisti possono definirsi annientati. Mai fidarsi troppo di questo Bari, oltre tutto. A cui, comunque, adesso andrà tributata maggior considerazione: se non altro perché la squadra potrebbe aver acquisito qualche dose del carattere di Antonio Conte, il suo condottiero: che - tra una frase irritante e un atteggiamento censurabile – sarebbe anche riuscito a rianimare (o rimotivare) la truppa. E di questo va dato atto. E merito. Ricomporre il risultato dopo aver sofferto la rimonta (a Vicenza) e aggrapparsi alla vittoria quando il tempo sta scadendo sono episodi che, da una certa angolazione, contano. Che producono morale, che rassodano la mente. Sono segnali: incoraggianti. Che aiutano a pensare positivo e a ricompattare uno spogliatoio che ha vissuto recentemente anche l’avvilimento e un nervosismo acceso. Che aiutano a riacquistare confidenza con il concetto di continuità. Per il momento, occorrerà accontentarsi. Ma, considerata la storia recente, saranno in parecchi a farlo. Purchè la squadra non si adegui: il Bari non può allentare la tensione, perché non possiede i mezzi per sostenersi altrimenti. Non può distrarsi: non è il caso.

Romano spinge il sogno

La serie D è dura e il Barletta, di fronte al Sapri, domenica, cerca di complicarsela: con un tempo, il primo, svogliato e imballato. Ma la squadra (rimaneggiata) di Chiricallo, va detto, camminando ha imparato a soffrire. E, se la leadership – anche se va e viene – resiste, qualcosa significa. E poi il Barletta può reggersi sulle prestazioni di un attaccante che segna sistematicamente gol che decidono il risultato, cioè sempre pesanti. Gaetano Romano, questa volta, colpisce due volte e, ovviamente, sblocca lo score. Semplificando un match che si sta intorbidendo e che, invece, si scopre generoso (finisce tre a zero). Per vincere, cioè, serve gente che spinga il sogno: e Romano sa farlo. Con una frequenza complessivamente rassicurante. Proprio nel momento in cui l’Aversa (quattro gradini sotto, terza forza del torneo) conferma certe sensazioni, diventando l’avversario più temibile, perché più continuo. Ad un punto della stagione in cui si stanno determinando certe situazioni e la gente che tifa Barletta chiede risposte certe, ingigantendo l’attesa e ispessendo le tensioni. Con le quali Daleno e soci stanno imparando a convivere.

martedì 12 febbraio 2008

Il Foggia, adesso, c'è

Il Foggia si lascia comprimere, ma reagisce. Si allunga e poi esplode. Nella notte di Cittadella addiziona tranquillità, freddezza e geometrie: attende e colpisce, controlla e sguscia. Il posticipo diventa un balcone con vista sulle prospettive, il simbolo del riappropriamento di un’identità. Il punto di ripartenza. Tratteggiato dai volti nuovi di gennaio, il brasiliano De Paula e il fantasista Mancino, troppo spesso sottovalutato a Martina. Ma è anche la partita della concretezza di Coletti, mediano di sostanza che si immola per la causa (doppia ammonizione e espulsione, a ventuno minuti dallo stop), e di Galderisi, trainer che parla quando è necessario e sempre con prudenza. Oppure la partita di Lisuzzo, che stoppa sulla linea di porta le speranze di rimonta dei veneti, o di Agazzi, che frena gli ultimi spiccioli d’orgoglio avversario, o del sacrificio di tutti a presidio del risultato. Più semplicemente, è la partita del Foggia, operaio e concentrato, motivato e riciclato. Che, infine, apre la finestra sui playoff. Ben venga, a questo punto, la continuità: ma il Foggia, adesso, c’è.

Il Monopoli cambia ancora

L’esonero di Lello Sciannimanico non sorprende: il progressivo deterioramento degli umori dentro e fuori dallo spogliatoio e lo scadimento palese del Monopoli nell’ultimo mese lo hanno preceduto e pianificato, preparato e cucinato. La contestazione della gente, in coda al match con il Marcianise (sconfitta a domicilio), ha poi saturato il già ristretto raggio d’azione del coach di Modugno, ultimamente indispettito dagli atteggiamenti e dagli orientamenti della piazza. Piovuti, pearltro, a rimorchio di un periodo oscuro: sul campo e anche fuori. Dove qualche situazione delicata (lo ripetiamo: qualcuno avrebbe voluto espatriare, durante il mercato suplettivo di gennaio) ha forse acuito il disagio di una squadra che sembra aver perso il passo e la brillantezza. E, per gli inevitabili incidenti di percorso, anche qualche protagonista di pregio (l’ultimo è Bitetto, infortunatosi): particolare di cui, in sede di commento, va tenuto doverosamente conto. No, la decisione della società non sorprende: è tutto normale. Quasi logico. Sorprende, semmai, l’operazione successiva: quella di riabbracciare Sauro Trillini, il tecnico che aveva cominciato la stagione e che proprio Sciannimanico ha avvicendato. Allontanato con accuse anche dettagliate e parole piccate. E separatosi dal Monopoli con qualche strascico polemico. Ma il calcio è questo e ci siamo abituati. E poi, evidentemente, nel frattempo le parti si saranno chiarite. Perché, se così non fosse, si addenserebbero altri rancori in uno scenario globale già nebuloso. Talvolta, il campo riflette tutte le distonie che lo circondano.

E Gallipoli sogna

La Salernitana si scuote e quasi si rialza, ma la marcia è ancora lenta. E il Gallipoli può approfittare per scalare posizioni nella considerazione popolare. Due punti dal podio principale, del resto, aprono scenari particolarmente sensuali. E ora, di questa realtà, sembra che ci si possa fidare seriamente: questione di continuità Da considerare in previsione futura. L’ultimo ostacolo, peraltro, è dribblato con carattere, equilibrio, lucidità. Il successo acquisito di fronte al rampamte Lanciano di Moriero riflette un periodo di forma evidente e una crescita costante e graduale, anche e soprattutto sotto il profilo della mentalità. Quella mentalità che, molto spesso, è il motore delle imprese. Alle quali, in riva allo Jonio, sembrano essere affezionati: tanto da credere, sempre più sinceramente, all’ipotesi serie B. Senza passare dalla porta dei playoff. A costo di rischiare persino la delusione: perché la concorrenza, al di là delle situazioni contingenti, è davvero robusta. Ma sognare, a questo punto, non è un peccato. E neppure presunzione. Ed è giusto vivere il sogno, fino in fondo. Se non altro, per non lasciarsi sopraffare – un giorno - dallo scrupolo di non avere tentato: proprio ora, che il disavanzo dalla vetta è decresciuto e che le coordinate favorevoli si moltiplicano. E poi, a proposito: la Salernitana comincia a temere. E l’entusiasmo del Gallipoli diventa carburante di prima qualità.

domenica 10 febbraio 2008

Sette uomini per una panchina

Sette cambi di panca (in un solo club, in un solo campionato, che poi non è ancora finito) non entrano nell’universo dei primati. Perché, magari, altrove, il gusto del cambiamento può essere stato più intenso, in un passato recente o lontano. Ma il dato è singolare. E arriva da Squinzano, dove una volta è transitata la C2 e oggi si combatte per salvare il posto nel campionato di Promozione. L’ultimo esonero è questione delle scorse ore: il nuovo nocchiero, poi, è un volto conosciuto, quello di Graziano Gori, fiorentino emigrato a Taranto e calciatori di livelli sostanziosi tra gli anni settanta e ottanta. Sette cambi di panca che inseguono una rivoluzione societaria e una nuova identità tecnica (la squadra è cambiata negli uomini, recentemente): niente di strano, forse. La cattiva classifica possiede le sue regole, anche e soprattutto scendendo le categorie. Dove è ancora possibile trovare chi crede di poter stravolgere il senso delle cose (e di una stagione) inseguendo strade parallele che pure si incrociano, ma che non conducono alla soluzione. E che neppure sanno alleviare il problema. Il fatto è che l’organizzazione conta, anche tra i dilettanti. E, quando arriva (se arriva), non basta a sanare il disagio pregresso. Tentare, si dice, è sempre utile. Ma immaginiamo che esista pure un prezzo. E un limite: di immagine. Del calcio, innanzi tutto.

sabato 9 febbraio 2008

Il derby antico della conferma

Il derby televisivo è combattuto e dal sapore antico come i derby devono essere. Grottaglie-Fasano, però, avrebbe potuto solo rappresentare una tappa di transizione dentro il campionato di D e così, in realtà, è. Non ci sono vincitori, ma c’è spazio per quattro gol, due traverse, un penalty sperperato, tre cartellini rossi e, soprattutto, per un confronto franco e aperto. E scorbutico nella coda, dopo un primo tempo che regala buona pubblicità al calcio di Puglia. Dove la squadra di Del Rosso si adopera con la volontà e rincorre due volte e dove quella di Pettinicchio si appoggia alla duttilità tattica e alla capacità di adattamento alle insidie del percorso (perché finisce il match in nove). Un derby, due squadre, una conferma: il Grotttaglie deraglia quando deve allungare il passo; il Fasano si fa sempre rispettare dai più dotati. E si può guardare avanti: non poteva essere il derby dell’innovazione.

Maiorino riconferma il Francavilla

Il Francavilla, nel bisestile duemilaotto, è il primo club pugliese a vincere qualcosa: riconsegnando a se stesso la coccarda regionale della Coppa Italia Dilettanti, già conquistata (sempre a Fasano) l’anno scorso. Che, sia detto per chi non frequenta questi quartieri, non è affatto un titolo di secondario spessore: sia per il più che discreto impatto mediatico (da questo punto di vista, l’impegno del comitato pugliese della Lega Dilettanti è meritorio, già da un po’), sia per il format della competizione (il titolo nazionale, ovviamente successivo a quello regionale, può valere la promozione in D). Nel fango del “Curlo”, questa volta, cede il Locorotondo: e la firma è, dagli undici metri, di Pasquale Maiorino, giovane talento tarantino che il Taranto ha lasciato maturare nella città degli Imperiali, nella seconda fase della passata stagione e in quella corrente. Maiorino ha inventiva, scaltrezza tattica, piedi buoni e sa alzare la testai. Sa anche puntare l’avversario e saltarlo, ma senza abusare della propria tecnica. Nel senso che, quando occorre concludere, conclude: da tutte le posizioni. Spesso, dalla distanza. E, spesso, di prima intenzione. Senza crescersi la palla tra i piedi. E, forse, è proprio questo il pregio più pregiato. Bello a vedersi, cioè: però anche tremendamente concreto. E coraggioso: perché dotato di personalità. Per questo, piace al Lecce: e lì, probabilmente, finirà.

venerdì 8 febbraio 2008

I numeri della preoccupazione

Il cambio di conduzione tecnica (Pensabene per Novelli, ormai digerito da tempo) e l’irrobustimento dell’elenco dei disponibili (Pisciotta, Filippini, Mandorlini, giusto per aggiungere tre nomi) non modificano ancora il tragitto arduo del Manfredonia. Che perde anche a Legnano: e perde male, rovinosamente. Il fattore-trasferta, anzi, sembra diventato un nemico subdolo e, tra la gente, comincia a muoversi l’idea che – da qui in poi – occorra concentrarsi e puntare sulla sequenza dei confronti da consumare sull’erba artificiale del “Miramare”. Dove, cronologicamente, scenderanno Padova, Pro Sesto, Lecco, Cittadella, Foggia, Pro Patria e Verona. Ovvero, due candidate serie alla promozione (tramite playoff o senza: le padovane), quattro concorrenti dirette alla permanenza (le tre lombarde e il Verona) e la squadra di Galderisi (un derby, ancorchè giovane, è sempre storia a sé). Non propriamente un menu agevole, seppur non proibitivo. Il problema, semmai, è che la squadra, sul proprio campo, ha già lasciato evaporare quattordici punti (quattro sconfitte e due pareggi su dieci match disputati): non pochi. Lamentandosi della propria ingenuità, più volte. Il tempo per riparare, è chiaro, c’è tutto. Ma serviranno quella risolutezza e quella continuità di rendimento che la squadra non ha dimostrato mai: né con Novelli, né con Pensabene. Uno, cioè, che ha impostato il proprio lavoro sulla fase difensiva. I numeri, intanto, dicono che il Manfredonia, dal cambio di panchina in poi, ha incassato quattro gol in tre partite. Qualcosa in meno (ma non troppo) dei precedenti trentuno in diciannove incontri. Abbastanza per non preoccuparsi.

giovedì 7 febbraio 2008

Iacovone, trent'anni nel ricordo

Scoprire all’improvviso che sono già passati trent’anni, turba. E, nell’intimo, sconvolge. Perché il tempo che passa turba e sconvolge. La figura di Erasmo Iacovone, intanto, sopravvive: anche se sono passati trent’anni da quell’incidente stradale che lo hanno proiettato nell’immaginario collettivo di coloro che lo hanno visto giocare, conoscito e amato. E anche di coloro che non lo hanno visto giocare e non lo hanno conosciuto: ma solo amato. Iacovone, quel 6 febbraio del ’78, ha lasciato in eredità il suo carattere semplice e qualche sogno interrotto e mai più riannodato: cioè, ha lasciato in eredità il ricordo, che talvolta è simile alla speranza. Taranto, nel frattempo, non è cambiata. O forse sì: perché è solo peggiorata. Socialmente, politicamente, economicamente. E anche il calcio tarantino è peggiorato: non più la B, ma la C1 (attuale), la C2 e l’Interregionale (subite in passato), transitando per tre fallimenti e per storie inenarrabili. Proprio per questo, oggi, Iacovone resta il simbolo della speranza, che si aggancia al ricordo, mai sbiadito: e non solo il nome ufficiale di uno stadio fatiscente, più o meno inagibile e avversato da guerre di religione. Scoprire che sono passati trent’anni turba. Perché, egoisticamente, significa che stiamo invecchiando, senza essercene resi conto. E, da un altro lato, fa male. Perché Taranto sta lentamente morendo. E il suo calcio non è mai veramente risorto. Accontentandosi del ricordo: l’unico ricordo vivido e indelebile. In una città che non è stata mai abituata a ricordare. Ma solo a distruggere.

Zotti e il Noicattaro, una strada comune

Le strade di Piero Zotti e del Noicattaro sono destinate a coincidere, incrociarsi, unirsi. La squadra si sveglia quando il suo fantasista scavalca il torpore. E il ragazzo si issa quando la squadra si ravvede. E’ così dallo scorso campionato. E non ci sono troppi argomenti per pensare il contrario. Zotti, ingoiata la delusione (anche personale: in mezzo, c’è la storia di un penalty fallito) della gara persa di fronte alla Vibonese, è tornato protagonista: appena sette giorni dopo, nel match di recupero con la Scafatese (tre punti: decisivo il suo sigillo, che addobba la prestazione). La prova più delicata dell’intero mese di febbraio, così, è superata: con buoni voti. Il confronto diretto con i campani, oltre tutto, restituisce un po’ di tranquillità e di sicurezza, evitando il tracollo psicologico di un organico che, ultimemente, sta puntando sulla ricostruzione atletica. Proprio perché – è la convinzione della società - la condizione fisica, ora affidata ad Agostino Marras, avrebbe deviato sensibilmente i progetti di salvezza. Intanto, le quotazioni del collettivo, sin qui in seria difficoltà, anche dal punto di vista della qualità di manovra, si innalzano un po’: e non è male. Tornare a pensare positivo, cioè, è la migliore operazione possibile. Curare le testa, oltre alla gambe: ecco, forse era (ed è) questo il punto. Possedere la consapevolezza di aver riagganciato la verve di Zotti, poi, è un’opzione largamente spendibile.

martedì 5 febbraio 2008

Il Gallipoli è pronto

Il Gallipoli sa vincere anche lontano da casa. La novità è questa. Oltre tutto, il tre a zero disegnato a Pistoia, pur non escludendo la necessaria sofferenza, sa essere eloquente sulla personalità del gruppo e sulla lievitazione della consapevolezza nei propri numeri della squadra di Bonetti, decisa di potersi aggrappare con forza ad una prospettiva intrigante. L’evento va decodificato come un segnale di ulteriore maturazione di un collettivo che non può (e neanche vuole, peraltro) nascondersi. In terza serie non esistono certezze, sempre minate dal grande equilibrio, ma sopravvivono le sensazioni: una di queste è che il Gallipoli, ora, sia più saldo psicologicamente. E i risultati si notano. La classifica degli jonici, stabile e rassicurante da un po’ di settimane, non mente. Contrastando con la volubilità di altre realtà credute sin qui inossidabili (Salernitana a parte, pensiamo all’Ancona). Nessuna gara, adesso, è decisiva, ma si sta avvicinando il rush finale. E De Gennaro e soci sembrano pronti ad affrontarlo.

lunedì 4 febbraio 2008

Casarano bollente

Il Salento sembra calcisticamente sempre più caldo e sempre meno tollerante. Scivolano troppi episodi scabrosi, ultimamente. L’ultimo graffio al pallone di Puglia si sarebbe compiuto a Casarano, in coda a novanta minuti indigesti (il pericolante Mesagne raccoglie un punto, inaspettatamente). Roberto Rizzo, allenatore contestato da tempo e già dimissionario, sarebbe stato accerchiato e colpito da alcuni rappresentanti della tifoseria. Notizia, peraltro, rilanciata da alcuni organi di informazione e poi velatamente smentita. Al di là della verità, tuttavia, esiste un disagio di fondo: il disagio tipico di quelle piazze dove il dovere di imporsi partorisce l’attesa. Perché l’attesa tradita genera l’infelicità. E l’infelicità popolare, troppo spesso, accompagna la violenza. Al Casarano, costruito per vincere il campionato di Eccellenza, non bastano gli investimenti generosi. E neppure il blasone del club o dei suoi big (Prisciandaro, Mitri, Andrisani, Luceri, Mortari, Stasi, Rosciglione): qualcuno dei quali ormai al capolinea. Né la manegerialità del suo gruppo dirigente: che, appena una settimana prima, aveva respinto il disimpegno di Rizzo. Il torneo sembra compromesso, anche se l’esperienza consiglia di considerare anche l’ipotesi contraria. Sembra, però, seriamente minacciata l’immagine di una società resuscitata dalle sue stesse ceneri. E confermato un dato: per vincere, anche in Eccellenza, occorre gente di categoria. E un collettivo. La coincidenza di tanti protagonisti di prestigio antico e di presente spento non paga. Il Francavilla (dello scorso torneo e di quello attuale) insegna.

domenica 3 febbraio 2008

Il giorno del Taranto

Vista a Martina, nel corso del girone di andata, e poi a Taranto, oggi, la Salernitana è la squadra più deludente, confusa e disarmata del campionato di C1, girone B. Malgrado una leadership consolidata e un potenziale tecnico riconosciuto e oneroso. Ma il successo ottenuto dalla formazione di Cari rimane pulito e insindacabile anche per meriti propri, affiorati con prepotenza nei primi quarantacinque minuti. In cui c'è sempre e solo la squadra di casa. Quei meriti, forse, sgualciti da una seconda frazione di gioco più dimessa, dove la rimonta campana si ferma a metà. Onore al Taranto, dunque: al quale l'avversario concede così tanto da farlo apparire più bello di quanto, in realtà, sia. Un Taranto che, però, sembra addirittura meglio strutturato tatticamente, per una larga fascia di match. E, chissà, pure più sereno: come se la definizione di certe situazioni, in sede di mercato suplettivo, avesse aiutato. Sicuro, è difficile capire dove si esauriscano i difetti altrui e dove, invece, comincino le virtù di un collettivo in eterna costruzione (o ricostruzione). Eppure, il valore psicologico del successo potrà servire a ripartire, a reperire slanci nuovi, a iniettare tranquillità ad un gruppo sin qui condannato ad una mediocrità fastidiosa. Che, all'improvviso, è stata squarciata. Ma non cancellata.

sabato 2 febbraio 2008

Lecce, futuro assicurato

Un tempo intero in inferiorità numerica non è più un problema irrisolvibile. Lo dicono le statistiche recenti. Ma il fastidio resta. E fronteggiare la situazione contingente aiuta a misurarsi con se stessi, a maturare certe convinzioni, a dotarsi di anticorpi sempre più sostanziosi. Il Lecce, a Treviso, perde una pedina (Cottafava) e raggiunge ugualmente il risultato, senza sconfinare, tremare o vacillare. Anche se i veneti trovano in dirittura d’arrivo un gol, invalidato dal direttore di gara. Davanti, la formazione di Papadopulo non punge: oltre tutto, contro un avversario non propriamente irreprensibile, sin qui. Ma tiene sotto il profilo comportamentale e psicologico, aggiungendo al proprio campionato un tassello che potrebbe erroneamente essere sottovalutato, ma che – invece- possiede un proprio spessore. Magari, il punto di Treviso diventerà materia sufficiente per ravvivare certi malumori della piazza (o di parte di essa), ma l’impressione è che il Lecce abbia ormai imparato a convivere con le critiche più fondamentalistiche. Come dimostra la nonchalance che ha aiutato l’intero ambiente a superare senza danni mediatici la polemica ingaggiata da Papadopulo con alcuni esponenti della tifoseria non più tardi di una settimana addietro. E come dimostra la compattezza del gruppo, imperturbabilmente ancorato alle posizioni che garantiscono un futuro.

venerdì 1 febbraio 2008

Quel centrocampista in meno

Sinceramente, dalla campagna di rafforzamento di gennaio del Bari, attendevamo qualcosa in più. Un contributo di qualità in mezzo al campo, ad esempio. E pure un supporto in fase avanzata: anche se Santoruvo è rimasto (non sappiamo, però, con quanta soddisfazione e, soprattutto, con quanta convinzione). Jadid, Masiello e Kamata, certo, sono un beneficio aggiunto, numericamente e - ricordando l'esordio del secondo nel match felice di Pisa - qualitativamente parlando. Le promesse, tuttavia, avevano lasciato immaginare altro ancora. Evidentemente, però, la società ritiene che, lentamente, il Bari si stia quadrando o si stia apprestando a farlo. Confidando nella grinta e nelle maniere brusche di Conte. E, quindi, nel cambio di panchina (e di metodo) ormai metabolizzato. Non vorremmo, tuttavia, che il pari pregiato ottenuto in Toscana abbia elevato eccessivamente il quoziente di buon umore del club. Se non altro, perchè siamo ormai abituati a essere smentiti da una squadra che si smarrisce ogni volta che sembra lievitare. Una prestazione positiva (ma isolata, va detto) non può rasserenare. Ma può fuorviare. Esistono i precedenti. Eppure, al Bari va concesso altro tempo. A questo punto, non ci sono alternative concrete.