E’ da dieci turni che il Foggia realizza il risultato, in casa e fuori. E due mesi e mezzo senza sconfitte si traducono, in classifica, con un terzo posto appena scalato. La continuità, in questo campionato di C2, premia per forza. Spingendo la gente di Padalino a confidare seriamente nel conseguimento di quel passaporto utile ad accedere in terza serie unica. Anche se la situazione di work in progress stagnerà a lungo (e il discorso vale per chiunque). Tanto che nessuna concorrente, con il regolamento attuale, potrà vivere serenamente sino a maggio. Oltre tutto, il campionato non ci sta regalando troppe realtà inattaccabili: e, davanti ad un grande equilibrio di fondo, è sempre possibile tutto e il suo contrario. Non è consigliabile illudersi, ovvio: ma, intanto, il Foggia è competitivo. Tra lacune e amnesie: ma competitivo. Quanto basta per giocarsi tutte le proprie chance. E per scegliersi da solo il proprio destino. Nel frattempo, è pure auspicabile che Giglio e compagni provino, magari, a migliorarsi (la squadra soffre ancora di cali di tensione fastidiosi e, spesso, difetta nelle operazioni di gestione del vantaggio o della gara) e a pretendere sempre più da se stessi. Per il momento, però, il passo più sicuro e la regolarità sulla strada del gol sembrano supportare agevolmente il progetto a cui il club non rinuncerebbe per alcun motivo, ovvero l’inserimento tra le prime otto del torneo. Malgrado, proprio come ieri, il tecnico abbia dovuto rivedere qualcosa, anche tatticamente, a causa di diversi indisponibili (mezza difesa era out). Il 4-3-3, cioè, non provoca smottamenti irrimediabili: al di là di qualche fibrillazione evidente e di un intervento risolutivo di Narciso (il Castel Rigone spreca l’occasione di pareggiare dagli undici metri, non dimentichiamolo). Ma, adesso, conta soltanto un dato: questa squadra, comparata a quella degli albori della stagione, sembra più tosta, più convinta, più rodata: e, se i suoi singoli più esperti e rappresentativi disciplineranno il proprio rendimento, il traguardo diventerà oggettivamente abbordabile. Pochissime eccezioni a parte, in giro non c’è molto di meglio.
lunedì 25 novembre 2013
Dieci risultati di fila e il Foggia emerge
E’ da dieci turni che il Foggia realizza il risultato, in casa e fuori. E due mesi e mezzo senza sconfitte si traducono, in classifica, con un terzo posto appena scalato. La continuità, in questo campionato di C2, premia per forza. Spingendo la gente di Padalino a confidare seriamente nel conseguimento di quel passaporto utile ad accedere in terza serie unica. Anche se la situazione di work in progress stagnerà a lungo (e il discorso vale per chiunque). Tanto che nessuna concorrente, con il regolamento attuale, potrà vivere serenamente sino a maggio. Oltre tutto, il campionato non ci sta regalando troppe realtà inattaccabili: e, davanti ad un grande equilibrio di fondo, è sempre possibile tutto e il suo contrario. Non è consigliabile illudersi, ovvio: ma, intanto, il Foggia è competitivo. Tra lacune e amnesie: ma competitivo. Quanto basta per giocarsi tutte le proprie chance. E per scegliersi da solo il proprio destino. Nel frattempo, è pure auspicabile che Giglio e compagni provino, magari, a migliorarsi (la squadra soffre ancora di cali di tensione fastidiosi e, spesso, difetta nelle operazioni di gestione del vantaggio o della gara) e a pretendere sempre più da se stessi. Per il momento, però, il passo più sicuro e la regolarità sulla strada del gol sembrano supportare agevolmente il progetto a cui il club non rinuncerebbe per alcun motivo, ovvero l’inserimento tra le prime otto del torneo. Malgrado, proprio come ieri, il tecnico abbia dovuto rivedere qualcosa, anche tatticamente, a causa di diversi indisponibili (mezza difesa era out). Il 4-3-3, cioè, non provoca smottamenti irrimediabili: al di là di qualche fibrillazione evidente e di un intervento risolutivo di Narciso (il Castel Rigone spreca l’occasione di pareggiare dagli undici metri, non dimentichiamolo). Ma, adesso, conta soltanto un dato: questa squadra, comparata a quella degli albori della stagione, sembra più tosta, più convinta, più rodata: e, se i suoi singoli più esperti e rappresentativi disciplineranno il proprio rendimento, il traguardo diventerà oggettivamente abbordabile. Pochissime eccezioni a parte, in giro non c’è molto di meglio.
giovedì 21 novembre 2013
Il Brindisi e l'insufficienza dei ricambi
Il campionato non esclude gli appetiti del Brindisi e, anzi,
continua a premiarlo con una classifica di vertice. Per niente scalfita da un
paio di passi sbagliati (la squadra di Ciullo non sfigura davanti alle altre big, ma di fronte a concorrenti molto
meno qualificate perde punti) e neppure da quei tre punti guadagnati sul Nardò
e poi cancellati dal provvedimento di esclusione dei salentini dal torneo
(intanto, però, il turno obbligatorio di riposo è già consumato). E anche la
maxisqualifica del suo miglior realizzatore, Gambino, sembra non incidere:
contro la Mariano Keller,
ad esempio, torna alla marcatura Albano, rinforzo di lusso arrivato a stagione
in corso. Per imporsi ugualmente, evidentemente, bastano le folate di
Pellecchia, la freschezza di Fella, le geometrie di Marsili e la quantità di un
gruppo che sa lavorare in silenzio. Ma, se le defezioni si assommano, alla
lunga il problema nasce. In Coppa Italia, ad Agrigento, il Brindisi si arrende
e abbandona il proposito di perseguire una strada alternativa per il
professionismo. Ai quarti si qualifica l’Akragas, formazione solida e meno rattristata
da infortuni e squalifiche. Gambino, questa volta, c’è. Mancano, però, Cacace,
Sicignano e Pellecchia. E, in corso d’opera, Ciullo deve rinunciare a Bove,
varando una linea difensiva assolutamente inedita e, probabilmente, inefficace.
Nei primi venticinque minuti del match, i siciliani imbastiscono di più. Poi,
il direttore di gara sorvola su un intervento scorretto in area agrigentina,
dopo che un pallone interessante si è appena smorzato sulla traversa. Il ritmo
non eccessivamente alto del match pare assecondare gli adriatici, ma i destini
si compiono (amaramente) nella seconda parte della ripresa. Quando, appunto, il
Brindisi sconta le insidie già conosciute e gli imprevisti di percorso.
Riproponendo una controindicazione antica, che non era sfuggita agli
osservatori più attenti e neppure su queste colonne: la disponibilità di pochi
ricambi nuoce. Soprattutto, nel vivo delle competizioni. Non è fastidio da
poco: malgrado l’euforia dei primi risultati abbia, per un certo periodo, accantonato
la realtà in un angolo. La verità, però, sa riemergere all’improvviso: e con la
realtà, adesso, occorre fare i conti. Il Brindisi, così, si trova davanti ad un
bivio: un percorso porta a nuovi investimenti (sempre che il club disponga
delle cifre che servono per continuare a competere), l’altro ad un
ridimensionamento progressivo delle pretese.
martedì 19 novembre 2013
Monopoli, giù la maglia
La timidezza del primo tempo e l’imperizia della seconda
parte del match condannano il Monopoli. E fruttano ai lucani del Francavilla un
successo di prestigio e di sostanza. La gente di De Luca si ferma ancora, in
trasferta: accade per la quarta vota in tre mesi. E non sono numeri che
autorizzano a confidare così facilmente nella promozione tra i professionisti,
ovviamente. Malgrado l’approccio alla partita si consumi con argomenti
promettenti, l’aggressività evapora presto: e resta una squadra senza
profondità, che si limita a controllare l’avversario, svolgendo il proprio compitino
e niente più. Che si risveglia prima dell’intervallo. E poco prima della fine
della gara. Troppo poco, Anche se il coach, davanti a block notes e microfoni, parla di un gran primo tempo della sua
squadra (difendere il gruppo va bene, ma esagerare stona: decisamente). L’assenza
dell’acciaccato Lanzillotta si fa sentire - e come - . E Di Rito, scartato
dallo scacchiere di partenza, entra soltanto nella ripresa: la prestazione,
forse anche per questo, resta lacunosa, innervata di esitazioni. In questo
campionato, è vero, nessuno sfugge ai pericoli del percorso (pensate: le prime
cinque della classifica, tutte assieme, hanno collezionato quattordici
sconfitte in dodici giornate, e stiamo escludendo le tre cadute della Turris,
che viaggia in sesta piazza), ma la tifoseria al sèguito di Laboragine e soci
ci resta assai male. L’accusa popolare si concentra sul difetto di impegno,
sulla mancanza di attaccamento alla maglia. A fine match, la contestazione
(anche se la società dribbla il vocabolo) è decisa e chiassosa. E non passa
affatto inosservata. Il gruppo è chiamato a svestirsi, a lasciare le maglie.
Che vengono, per la cronaca, affidate alla società. Non requisite, per
intenderci. E’, comunque, un gesto forte, netto. Antipatico, certo. Che ricorda
quello, più noto e sviluppatosi in un contesto più composito, della torcida del Genoa (roba di un paio di
stagioni addietro). E che scatena facili disamine sociologiche applicate al
pallone, alcune anche pertinenti (il disagio e la rabbia degli ultras si fanno sempre più pressanti,
non c’è che dire: e il calcio, anche per questo, ma non solo per questo,
annaspa). Finendo per interessare anche la stampa nazionale e la televisione
generalista. Che, però, finisce per accostare forzosamente i fatti di
Francavilla con quelli (recenti) di Salerno, in realtà di più pesante natura.
Anzi, per dirla proprio tutta, l’equazione indispettisce alquanto. Perché
disinformata e tecnicamente sbagliata. Perché di qua c’è semplice contestazione
e di là, in Campania, ci sono minacce (ancora da provare, per inciso) e
progetti predefiniti nei dettagli. Perché da una parte c’è una partita mai nata
e, da quell’altra, un match regolarmente giocato e malamente perso. Oltre ad un
centinaio di dettagli differenti. Così, giusto per ricordarlo.
lunedì 18 novembre 2013
Il Grottaglie riparte e respira
Grottaglie-Real Metapontino, innanzi tutto, serve a capire
che squadra trova – e che può cominciare a plasmare – Giacomo Pettinicchio,
condottiero alla prima stagionale. Il
trainer tarantino, intanto, possiede
due motivi per confidare in un esordio il più morbido possibile: il calibro
dell’avversario, assolutamente alla portata delle attuali possibilità tecniche
dell’Ars et Labor, e l’inserimento del primo puntello di metà stagione (Prete
arriva in settimana, firma e gioca dall’inizio). L’approccio, pur intriso di
volontà, è però anche caotico. Il Grottaglie prova ad occupare spazi vitali, ma
concede anche qualcosa: e pure il gol del lucano Pignatta, peraltro sùbito
pareggiato da Formuso. Il match è denso, ruvido quanto basta, tecnicamente
sporco: il Real, di certo, è una formazione più fisica, talvolta più pragmatica,
sempre disposta a battagliare, abbastanza coperta (4-4-1-1). E, se càpita, a
guadagnare minuti preziosi. Particolari che, allo stato pratico, si scontrano
con l’esigenza di Anglani e soci, che resta quella di perseguire una trama e di
inseguire la costruzione del gioco. Ma, come accade molte volte, è l’intuito
del singolo che sblocca la questione. E l’uomo della partita si chiama Faccini:
il ragazzo, a secondo tempo appena partito, si inventa una conclusione dal
limite (è il sigillo del due a uno) e, sei minuti dopo, disegna la traiettoria
liftata del gol dell’ipotetica tranquillità. Il Real, comunque, non smette mai
di mordere: e il 4-2-3-1 reimpostato da Catalano genera la marcatura del tre a
due: che fa sperare, ma che non basta. L’Ars et Labor, così, dopo settimane
lunghe e arrugginite, riconosce il sapore del successo e, finalmente, respira. Rompendo,
oltre tutto, il digiuno al D’Amuri
(non aveva mai segnato, sin qui). Il lavoro che attende Pettinicchio, però,
resta. Come galleggiano ancora alcune amnesie (dietro, una certa leggerezza
negli atteggiamenti mette a rischio il risultato troppe volte, in prossimità
del novantesimo), certe esitazioni e certi limiti strutturali dell’organico.
domenica 17 novembre 2013
Martina, avanti adagio
Tra i buoni propositi del Martina, c’è anche il varo di un
sistema di gioco diverso, il 3-5-2. Nella pratica, un accadimento intempestivo
modifica immediatamente il percorso del match, anticipato al sabato al pari
degli altri: a cento secondi dall’avvio, il calcio franco battuto dall’antico
Mora trova la deviazione decisiva in barriera. Ischia in vantaggio e jonici
ancora più frastornati del previsto. La reazione è affaticata, debole. Le
indisponibilità (Petrilli, De Lucia, Salvatori, Dispoto, Di Lauri) peggiorano
la situazione. Le condizioni del terreno non la leniscono affatto. Mentre
qualche presenza inattesa in tribuna (Rocchi e Gigli, oltre a Memolla: tutti
teoricamente arruolabili) incuriosisce. L’avversario, intanto, si limita al
compito più semplice e concreto: attendere e ripartire. Mostrando, tuttavia,
maggior lucidità. Senza spessore di manovra, la formazione di Bocchini
(squalificato: in panchina siede Cimmino) si cerca, ma non si trova. Prima
dell’intervallo, comunque, l’intervento del direttore di gara (cartellino rosso
per Austoni: è il prezzo di una gomitata che vede l’assistente di linea) sembra
accondiscendente. Comunque, soccorre. L’ingresso di un centrocampista (Aperi)
per un difensore (Nucera), allora, muta il profilo del Martina, adesso
disegnato con un 4-4-2 appena più vivace. Che, nella seconda porzione di
partita, coglie l’esigenza di amministrare - di più e meglio – il pallone: ma
manca la brillantezza, lo spunto, l’idea. A Gai non difetta, però, la
conclusione dalla distanza che regala il pari. La superiorità numerica di
Belleri e compagni, tra l’altro, comincia a pesare nelle gambe isolane. Il
Martina, a questo punto, da inseguitore si fa inseguito. E potrebbe infilarsi,
in quattro occasioni, nelle amnesie campane, senza peraltro arrivarci (è,
ancora una volta, un problema di qualità: dei singoli e del collettivo). Finisce
come nessuno avrebbe sospettato: con un po’ di recriminazioni nel bagaglio. Ma
un punto, al novantesimo, è esattamente quanto spetta ad una squadra a cui non
basta il cuore e la quantità dell’ultimo quarto d’ora. Il periodo in cui, cioè,
l’Ischia certifica una realtà che avevamo decodificato da un po’: anche questo
torneo di C2, malgrado l’appetito di tante protagoniste e molti organici
attrezzati, è sostanzialmente modesto. Quasi quanto i precedenti. Un
particolare che suona, per il Martina, come una speranza in più. Da far
brillare, magari, quando arriveranno i rinforzi (il presidente, davanti ai
microfoni, ne promette addirittura quattro, senza minacciare tagli). Digrignare
i denti per un mese e resistere: è questo il nuovo ordine da rispettare.
giovedì 14 novembre 2013
Grottaglie, un cambio previsto
Il destino di Alberto Bosco
era ovviamente segnato, da settimane. L’esonero era slittato, almeno un paio di
volte: per pudore (il rapporto tra il presidente del Grottaglie D’Amicis e il
tecnico, per esempio, era e rimane ottimo), buon senso (in fondo, può essere
duro per chiunque consegnare all’allenatore un organico limitato nel numero e
nell’esperienza e poi pretendere risultati copiosi), ristrettezze economiche
(il nuovo arrivo sulla panca possiede pur sempre un costo ed è pure naturale
che pretenda garanzie, cioè puntelli tecnici) e per il peso specifico della
speranza, che accomuna gli uomini di buona volontà (la speranza di invertire un
trend decisamente negativo e recuperare la strada per la permanenza in D). Però,
le sconfitte si inseguono senza soluzione di continuità da troppo tempo. E
l’ultima caduta, oltre tutto, è immediatamente apparsa rovinosa (sei a zero:
sul campo della capolista Marcianise e con un uomo in meno per una larga parte
di match, è vero; ma pur sempre di sei a zero si tratta). Di più: l’Ars et
Labor, da almeno un mese, sembra aver imboccato il cammino triste
dell’involuzione acuta, sotto il profilo degli atteggiamenti e della gestione
dei novanta minuti: al di là del pessimo trattamento infertole dal calendario,
che negli ultimi tempi ha riservato solo avversari di alta e altissima
classifica. Bosco, dunque, questa volta non se l’è sfangata. Tanti
ringraziamenti e un foglio di via: che la gente, oggettivamente, attendeva (non
è poi sempre impossibile intuire il futuro prossimo). E via, verso un capitolo
nuovo. Che si concentra attorno alla figura del nuovo coach, il tarantino
Giacomo Pettinicchio: che, proprio dal Taranto, in estate, si è sentito profondamente
tradito. Persona squisita e garbata: che, ormai, ha accumulato tutta
l’esperienza che gli serve per provare a salvare il Grottaglie. Ma non ha
accettato sùbito, Pettinicchio. Preferendo pensarci, prima. O, meglio,
preferendo riscuotere innanzi tutto la promessa di ricorrere prontamente al
mercato di riparazione che si sta aprendo. Anzi, il club gli ha già garantito
un nuovo ingaggio, quello dello svincolato Prete: a Taranto con il trainer fino a pochi mesi addietro (il
plotone dei fuoriusciti da quella formazione, quindi, si allarga). E un altro
regalo potrebbe aggiungersi a breve (Fumai, condizioni fisiche permettendo). A
questo, punto, magari, Bosco si starà già chiedendo come e perché i fondi siano
improvvisamente spuntati all’orizzonte di un club tuttora in difficoltà. Ma è
anche abbastanza noto che l’Ars et Labor si sarebbe comunque riattrezzata, a
metà stagione: con o senza il vecchio condottiero. In fondo, però, il primo
comandante della stagione ci sarà rimasto sufficientemente male: tanto che,
elogiando il solo presidente, prima del commiato ha volutamente ignorato gli
altri componenti del gruppo di comando. E, di sicuro, Pettinicchio è in grado
di raddrizzare la questione, anche con pochi aggiustamenti (mirati,
possibilmente). Intanto, la richiesta (quella formale, almeno) è abbastanza
semplice: tornare a lottare per l’obiettivo, riconquistare il passo delle
concorrenti dirette. Quello che il Grottaglie ha paurosamente smarrito.
mercoledì 13 novembre 2013
Bitetto e l'involuzione del Bisceglie
Il Bisceglie è già logoro. Si esprime a fatica e,
ormai, soccombe anche a domicilio (anzi, sul neutro di Ruvo), di fronte ad avversario meno quotato e considerato (il
Francavilla lo infila un paio di volte, sollevando la crudezza della realtà). A
dispetto delle quotazioni che il campionato, sin dall’inizio, tributava ad una
formazione che, di questi tempi, non punge (in tutto, sin qui, otto gol
realizzati) e che, in fase di non possesso, si sta assentando parecchio. Del
resto, anche l’ancora recente transazione tecnica (in panca, ora, siede
Favarin) si è presto rivelata inutile, sul piano dei risultati e del rendimento
sul campo. Che non si giova troppo neanche di determinati provvedimenti societari
(Gambuzza e Del Core, attualmente, sembrano ai margini del progetto), evidentemente
insufficienti a recuperare smalto ed energie smarrite. E’ già fuori dalla
battaglia per vincere, il Bisceglie. Definitivamente, oseremmo aggiungere. Ed è
il caso che la formazione stellata pensi a come evitare di essere risucchiata
in quella per la sopravvivenza: perché tutti sappiamo come vanno certe stagioni
e come maturano le situazioni più imbarazzanti. Le ultime note di cronaca
disegnano una squadra in confusione, lenta e triste. L’ambiente è depresso, il
presidente Canonico fortemente deluso. Ma, assicura, non ancora stanco (proprio ieri, pubblicamente, ha promesso di rafforzare la squadra, a dicembre). La
scelta estiva degli uomini non paga: esattamente come un anno fa. E le discrete
esposizioni economiche del club, ancora una volta, non lasciano sognare la
gente che tifa. Mentre si riabilita assai la figura di Francesco Bitetto, il
primo coach della stagione che ha già pagato con l’esonero l’involuzione
progressiva della squadra. Non l’unico responsabile, a questo punto, dello
stato di recessione. E, forse, neppure il primo. Intanto, e pure giustamente, l’allenatore
esautorato reclama di aver incontrato, sotto la sua gestione, le formazioni più
attrezzate del campionato. Mentre il suo successore le ha evitate: senza
guadagnarci, peraltro.
martedì 12 novembre 2013
Papagni e il nuovo Taranto
Quattro partite con Papagni. Cioè, un mese di
introspezione, riflessioni, manovalanza psicologica e operazioni tattiche. Dove
l’esigenza di conoscere il cuore dei problemi si fondeva con la necessità di verificare
le facoltà delle forze attualmente a disposizione e di scegliere le opzioni più
affidabili. Quattro settimane di nuovo corso e quattro buoni risultati
(pareggio a Pozzuoli e tre successi di fila, contro Grottaglie, Gladiator e
Gelbison): ora, il Taranto sembra tornato il pericolo vagante che gli avversari
temevano e la squadra solida e affamata che in riva ai due Mari si auguravano
di poter salutare. Trenta giorni dopo, sullo Jonio c’è un’altro spirito. Si
respira un’altra atmosfera. E brilla un’altra classifica. Il terzo posto (il
Marcianise, leader del girone,
viaggia quattro punti sopra e il Monopoli è davanti di una sola lunghezza), oggi, è la piattaforma ideale
per poter barattare i dubbi dell’altro ieri con le velleità di sempre. Perché,
nel frattempo, la squadra ha recuperato sicurezza in se stessa, serenità e
ordine nelle strategie. Perché ha riconquistato passo ed energie nervose.
Perché pochi e mirati accorgimenti nello scacchiere, un atteggiamento più
aggressivo del collettivo, una gestione più consapevole delle situazioni di
gioco e molto lavoro applicato sulla psiche della truppa, prima o poi, incidono
profondamente. Eppure, Papagni non è un illusionista che s'industria a far magie. Ma un tecnico esperto e
intelligente. Morbido e convincente. Ed è uomo semplice e diretto. Un po’
padre, un po’ psicologo. Uno che, con modi garbati, ottiene puntualmente il
sostegno della gente che allena e la duttilità dei singoli. Non si è affacciato
sulla piazza pubblica degli affari di mezza stagione, cercando svincolati più o
meno pronti a salire in corsa su una macchina ingombrante e affaticata.
Preferendo, piuttosto, capire caratteristiche palesi e nascoste di chi ha
cominciato l’avventura in estate. Soppesando, indagando, incoraggiando. E
valutando soluzioni nuove. Somministrando al Taranto una mentalità più
costruttiva e infondendo, al di là di tutto, più coraggio: come a Santa Maria
Capua Vetere, due domeniche fa, dove una semplice sostituzione (una punta per
un centrocampista, niente di inedito) è diventata un messaggio preciso, un input meraviglioso. Utile a vincere il
match. Eccolo, il Taranto di Papagni: al centro della corsa, nonostante tutto. Con
il permesso della concorrenza, niente affatto irresistibile: almeno sin qui. E
con una prospettiva importante: il tecnico, a dicembre, vorrebbe avvalersi di
un altro difensore di qualità e di un centrocampista che sa gestire la palla (sempre che non l'abbia già trovato, proprio questa domenica: Ciarcià). Molto
probabilmente, li otterrà.
lunedì 11 novembre 2013
Monopoli, un gol al fotofinish per cambiare umore
Le ambizioni non abortiscono alle prime difficoltà. E neppure al secondo ostacolo. Ma l’inconveniente di un infortunio doloroso, di fronte ad una concorrente diretta, proprio nella partita che dovrebbe consolidare l’immagine del Monopoli, rischia di nuocere gravemente alla salute. Indebolendo, nell’immaginario collettivo, il ruolo che la formazione di De Luca, ormai, rivendica con convinzione. I minuti di recupero, però, azzerano il pericolo: il destro di Lanzillotta non è potentissimo, ma angolato. E il pareggio raggiunto oltre il novantesimo, come per magia, scrive improvvisamente un altro tipo di letteratura. Raccontando di una squadra finalmente assetata, affamata e supportata dagli attributi più virili. Mancati, per inciso, in altre occasioni recenti. In un minuto, il quarantasettesimo della seconda parte del match, cambiano diverse cose: la classifica del Monopoli e del Matera (in vantaggio per settanta minuti, inutilmente), le analisi del dopo gara, l’umore dell’ambiente intero e le prospettive future. E certe debolezze fanno spazio ad appetiti nuovi. Il clou della domenica, peraltro, sembra promettere: Strambelli e soci entrano sùbito nel cuore della gara, elevando il quoziente di preoccupazione della mediana lucana, che fatica ad arginare le pressioni. Supremazia territoriale significa intensità: e tutto procede bene. Ma, appena l’intensità cala, spunta la qualità dei singoli del Matera, appena affidato ad una nuova guida tecnica (Antonio Toma). Matera che, in cinque minuti, colpisce due volte, ipotecando il risultato. E che, tuttavia, non possiede il dono della continuità, né una condizione atletica soddisfacente. Le quotazioni del Monopoli si rialzano dopo l’intervallo, appena si rialimenta la densità di manovra. L’ingresso di Laboragine, poi, arricchisce lo scacchiere di De Luca: anche se il numero delle occasioni da gol non si irrobustisce affatto. Ed è proprio qui, allora, che l’orgoglio s’inserisce nelle maglie della gara. Il Monopoli, in dieci contro undici, raccoglie le ultime gocce di coraggio e raggiunge l’obiettivo minimo. Ed è proprio qui che un giorno ingrigito dalle circostanze si riscopre fecondo di significati. E di consigli: per gli acquisti nel mercato di riparazione, innanzi tutto. L’acquisizione di un difensore, da oggi, è un’esigenza inderogabile. Adesso va detto in modo chiaro, inequivocabile. E non importa se diventerà contestualmente necessario tagliare qualcosa, nell’organico attuale. Adesso è il momento: anche perché sembrano davvero tutti (o quasi tutti) convinti dell’urgenza dell’operazione.
domenica 10 novembre 2013
Un'ora di bel Bari
Il Bari fatica ad affrancarsi al concetto di continuità. E la classifica, di conseguenza, non gode. Talvolta, la squadra si affloscia. E le preoccupazioni ritornano: perché la battaglia per la sopravvivenza non è un pensiero trascurabile. Ma il Bari che regola, a casa propria, il Varese (due a uno) non è affatto male: per un tempo, il primo, corre meglio dell’avversario, si fa preferire sul piano della manovra, gestisce il campo e, più tardi, governa bene il vantaggio firmato da Galano. Cerca la profondità e le sovrapposizioni (a sinistra, principalmente), si esprime con personalità e lascia alla timidezza dei lombardi poche geometrie. Sostanzialmente, la formazione di Alberti e Zavattieri è più tosta, come dimostra la buona quantità dei contrasti vinti in mezzo al campo: e il raddoppio, arrivato dagli undici metri (Defendi trasforma in apertura di ripresa) è sigillo che premia fedelmente la sua superiorità. Che viene un po’ scalfita soltanto nell’ultima fetta del match, quando il Varese ha già ridotto, sempre su penalty, il disavanzo, malgrado la sopraggiunta inferiorità numerica: tanto che il primo coach, davanti ai microfoni, a fine gara, è costretto a dettare il proprio disappunto che sorga dalla sofferenza finale. Globalmente, però, la prestazione deve rinfrancare, incoraggiare. Al di là dell’atteggiamento un po’ frenato di Bjelanović e soci, oggettivamente deludenti. E anche il modulo (di partenza è il 4-2-3-1, ma si finisce con il meno spinto 4-3-3) sembra efficace, nell’economia dell’organico. Che, è vero, certe volte si concede qualche pausa, persino comprensibile. Argomenti che spiegano quanto, oggi come oggi, sia legittimo concedere a questa squadra tutta la fiducia che reclama. E quanto, dopo tutto, l’obiettivo dichiarato non costituisca un impegno eccessivamente ingombrante.
lunedì 4 novembre 2013
Martina, il bonus sembra esaurito
Non dimentichiamo quanto pensavamo, sapevamo, scrivevamo. E neppure quanto prevedevamo: il campionato del Martina, cioè, sarebbe stato infido, affaticato. Per la bassa qualità media della base tecnica e per l’insufficiente esperienza di un organico costruito con seconde scelte. Piuttosto, a lavori in corso, ci era pure sembrato giusto cominciare a sottolineare la bontà del lavoro del tecnico: abile ad arginare i problemi con la sostanza del suo impegno quotidiano. Ma, malgrado questo, già discusso in qualche sotterraneo del club e mal apostrofato da qualche sostenitore sufficientemente accalorato. Eppure – è la nostra posizione ufficiale – padre nobile di almeno un paio di punti tra quelli (otto) sin qui collezionati dalla squadra. Di fatto, però, l’onestà intellettuale ci impone di aggiungere anche dell’altro: di come, ad esempio, da un mese a questa parte, la squadra stia vivendo un momento involutivo: sotto la prospettiva degli atteggiamenti, prima ancora che della manovra. Al di là dei risultati. E dei difetti di regolarità: che, peraltro, disturbavano il Martina anche nel suo periodo migliore. E che, pensandoci bene, assillano la maggior parte delle concorrenti del girone meridionale della vecchia C2 (ancora non abbiamo ammirato una formazione in grado di galleggiare sul concetto di continuità per novanta minuti o poco meno, Teramo e Lamezia compresi). Sì, la formazione di Bocchini sembra essersi appiattita, ultimamente: sul piano della pianificazione delle singole partite. E dal punto di vista dell’organizzazione. Due angolazioni sulle quali, per intenderci, si aggrappavano (e si aggrappano ancora) molte speranze coltivate in Valle d’Itria. Ieri, al Tursi, Petrilli e compagni partono morbidi, come in altre occasioni. E subiscono immediatamente il Tuttocuoio, collettivo che sembra disporre di un’ottima mediana, ma che – dopo essere passato in vantaggio – dimentica il compito e s’immerge nella realtà del torneo (venti, venticinque minuti di buon calcio non bastano a giustificare il diritto a pretendere i tre punti). Così come nel corso del match (perso) di fronte al Teramo, seppur obbligato a rincorrere, il Martina si piazza (per un po’) dietro la linea della palla, dimessamente. Questa volta, comunque, l’avversario è meno furbo e, probabilmente, meno attrezzato: il pareggio, dunque, da qualche parte esce, prima dell’intervallo. Mantenendosi sino al novantesimo: senza proiettare, è vero, la formazione di Bocchini verso posizioni di classifica più serene. Ma nemmeno imbastardendo un percorso già difficile. E, soprattutto, rinviando un processo interno e pericoloso (con la sconfitta il coach avrebbe mantenuto il posto? Crediamo di no). Un punto, dunque: ma, oggettivamente, questo Martina non avrebbe mai potuto ambire a qualcosa di più di un pari (due conclusioni timide di Bozzi, un calcio piazzato di Provenzano e qualche sussulto sono poca cosa). Anche perché i singoli più dotati (come Petrilli e Di Lauri) vivacchiano, senza integrare il tasso di penetrabilità dell’organico. Che, forse, ha già del tutto utilizzato il bonus della buona disposizione tattica e della volontà operaia. Reclamando qualche stampella che solo il nuovo sponsor Gherardini potrà garantire entro il nuovo anno.
domenica 3 novembre 2013
E, alla fine, il Nardò si fa da parte
Senza spiccioli da spendere. Senza esperienza da
piazzare sul campo, al fianco della gioventù arruolata . Senza chiarezza. Senza
nuovi investitori. Senza prospettive. E senza il sostegno della sua gente. Il
destino del Nardò sembrava segnato, da tempo: la prima rinuncia, agli albori di
questo campionato di serie D, poi il secondo mancato appello. E il terzo forfait, dopo un breve break di speranza, seppur macchiato da
troppi gol nella porta sbagliata, ceffoni sonori. Quindi, la quarta assenza
sull’erba di Grottaglie (match previsto per oggi: ma non comincerà). Cioè, l’atto
conclusivo. La società salentina firma la propria esclusione dal torneo, in
ossequio ad un regolamento che non contempla sconti. Niente da fare, sotto il
vestito del blasone non c’è più niente. Neppure l’impegno degli ultimi
volontari che avevano accompagnato i giovani di Menichelli all’inizio di
ottobre, giusto per scongiurare l’esclusione forzata (che, adesso sì, è improcastinabile). Neppure l’istinto di
sopravvivenza. Eppure, dicevamo, qualcuno ci aveva persino provato: a
resistere. Stoicamente. Cercando, così, di solleticare l’interesse di nuovi
imprenditori. Malgrado l’intransigenza della frangia più calda del tifo, che
aveva già deciso per l’eutanasia. Senza se e senza ma. In attesa di una società
tutta nuova e di un titolo da acquisire altrove, l’anno prossimo. E dire che
qualcosa era addirittura accaduto, negli ultimissimi tempi: Gianluca
Fiorentino, ormai ex patron del Manduria, avrebbe voluto rilevare oneri e
fastidi, lasciando vivere ancora il Nardò, impostandone sin da adesso il
rilancio. Per poi scoprire che, forse, la fine delle trasmissioni e delle
sofferenze era un sentimento largamente condiviso, anche tra chi non si era
ufficialmente pronunciato. La resistenza, intanto, si è consumata in fretta.
Sottraendo al girone appulocampano di quinta serie una delle diciotto
protagoniste. Imponendo, da ora in poi, un calendario sempre zoppo. E
rimodellando la classifica (i punti che verranno sottratti a quanti li avevano
intascati non passeranno inosservati). Cala il sipario, resta soltanto la
storia. Prima o poi, però, il Nardò rinascerà. Ripartendo dall’Eccellenza o
dalla Promozione. Comunque, da un palcoscenico molto stretto. E ingiusto, per
una della poche piazze di Puglia autenticamente legate al pallone e alla sua
squadra. Tanto da privarsene per nove mesi: bene che vada.
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