Le fatiche di Coppa Italia non mentivano: il Barletta impacciato e lento di allora non si evolve neppure in campionato. Dove, a due mesi dallo start, la classifica sembra già condannare gli investimenti estivi, le sicurezze e gli ottimismi del presidente Tatò, il lavoro dell’operatore di mercato Martino e le scelte del tecnico Orlandi: partito, quest’ultimo, con una discreta dote di credibilità, guadagnata sul campo nella seconda parte della stagione trascorsa e ormai praticamente sperperata tra settembre ed oggi. Tre punti, quelli collezionati sin qui, dicono molto: dei disagi del gruppo in fase di impostazione, dello scarso appeal nel cuore delle difese avversarie, della difficoltà a sterzare a gara in corso, della fragilità della terza linea in quasi tutte le occasioni. Il penultimo posto occupato attualmente in graduatoria (al di sotto, naviga la sola Nocerina) sembra oggettivamente autentico. Come autentici sono gli altri numeri che illustrano il caso: soltanto due gol segnati, dieci marcature sofferte e cinque sconfitte in otto gare. E come autentico è disappunto della tifoseria, mortificata anche dall’ultima prestazione della squadra, piegata a Pagani da un’altra formazione zoppicante. Tifoseria che, per la verità, rumoreggia da un po’. E che, pressando la proprietà, ne ha consigliato il disimpegno: ancora formale, cioè da confermare. Ma ugualmente preoccupante. Tatò, riconoscendo i limiti del Barletta e i propri errori, ha rassegnato le dimissioni già a ridosso dell’ultimo match: garantendo, tuttavia, la copertura gestionale sino alla fine del campionato. E, dunque, lasciando indifese anche le posizioni dei suoi più stretti collaboratori, Martino su tutti. Non c’è più tanto feeling, tra la gente che tifa e il vertice societario: e questa è una notizia datata. Eppure, l’episodio è assai più fastidioso di quanto possa sembrare: perché, quest’anno più di altri (la terza serie non contempla retrocessioni), sarebbe stato opportuno lavorare con profitto in prospettiva, più che per l’immediato. E perché, soprattutto, ci priva di una certezza: quella di una stagione priva di grandi assilli, in quanto liberata dagli incubi di un’ipotetica partecipazione alla lotteria della permanenza.
mercoledì 30 ottobre 2013
Barletta, è già bufera
Le fatiche di Coppa Italia non mentivano: il Barletta impacciato e lento di allora non si evolve neppure in campionato. Dove, a due mesi dallo start, la classifica sembra già condannare gli investimenti estivi, le sicurezze e gli ottimismi del presidente Tatò, il lavoro dell’operatore di mercato Martino e le scelte del tecnico Orlandi: partito, quest’ultimo, con una discreta dote di credibilità, guadagnata sul campo nella seconda parte della stagione trascorsa e ormai praticamente sperperata tra settembre ed oggi. Tre punti, quelli collezionati sin qui, dicono molto: dei disagi del gruppo in fase di impostazione, dello scarso appeal nel cuore delle difese avversarie, della difficoltà a sterzare a gara in corso, della fragilità della terza linea in quasi tutte le occasioni. Il penultimo posto occupato attualmente in graduatoria (al di sotto, naviga la sola Nocerina) sembra oggettivamente autentico. Come autentici sono gli altri numeri che illustrano il caso: soltanto due gol segnati, dieci marcature sofferte e cinque sconfitte in otto gare. E come autentico è disappunto della tifoseria, mortificata anche dall’ultima prestazione della squadra, piegata a Pagani da un’altra formazione zoppicante. Tifoseria che, per la verità, rumoreggia da un po’. E che, pressando la proprietà, ne ha consigliato il disimpegno: ancora formale, cioè da confermare. Ma ugualmente preoccupante. Tatò, riconoscendo i limiti del Barletta e i propri errori, ha rassegnato le dimissioni già a ridosso dell’ultimo match: garantendo, tuttavia, la copertura gestionale sino alla fine del campionato. E, dunque, lasciando indifese anche le posizioni dei suoi più stretti collaboratori, Martino su tutti. Non c’è più tanto feeling, tra la gente che tifa e il vertice societario: e questa è una notizia datata. Eppure, l’episodio è assai più fastidioso di quanto possa sembrare: perché, quest’anno più di altri (la terza serie non contempla retrocessioni), sarebbe stato opportuno lavorare con profitto in prospettiva, più che per l’immediato. E perché, soprattutto, ci priva di una certezza: quella di una stagione priva di grandi assilli, in quanto liberata dagli incubi di un’ipotetica partecipazione alla lotteria della permanenza.
martedì 29 ottobre 2013
Il Lecce, finalmente
Cinque gol ad Ascoli diradano
le nuvole. E si accodano ai punti raccolti da quando, in panchina, c’è Lerda.
Il Lecce cresce: risultati e calcio prodotto confermano. Il fondo della
classifica è decisamente più distante. I quartieri più nobili del campionato un
po’ più prossimi (si viaggia appena una lunghezza sotto). Chiaro: adesso, nel
Salento, sarebbe persino logico sbirciare spudoratamente verso i playoff. Ma,
forse, per il momento sarebbe pure meglio non pensarci troppo: in attesa che
Bogliacino e compagni acquisiscano un passo definitivamente deciso, regolare.
In attesa, cioè, delle conferme che servono. Intanto, però, l’ambiente si è rasserenato
un po’. Ritrovando tonicità, smalto, respiro. Il successo di domenica,
peraltro, spinge a credere che il periodo più buio sia ormai sorpassato. E a
constatare che la squadra sta cominciando a capire se stessa, a fidarsi delle
proprie potenzialità. I punti, lo sappiamo, aiutano a carburare meglio: ma è
anche vero che il Lecce, ora, sa cosa fare sul campo. Prendendo iniziativa,
soprattutto. Ovvero, cercando di costruirsi da solo il destino che l’attende. Ad
Ascoli, certo, sono due penalty di sèguito ad aprire la strada, che nel frattempo
si fa insostenibilmente angusta per l’avversario. Ma la formazione di Lerda
possiede il pregio di non confondersi e di non smarrirsi, come in passato.
Dimenticando i suoi indisponibili (Miccoli, Sacilotto, Perucchini, Bencivenga)
e riscoprendo Bogliacino, che firma una prestazione convincente. Come Zigoni,
del resto. Il 4-2-3-1, sintetizzando, funziona meglio di altri moduli provati
in precedenza. E, dunque, il coach comincia seriamente a solidificare il suo
progetto tattico. Assolutamente determinante, una volta che gli atteggiamenti
giusti sembrano recuperati. Possibilmente, per sempre.
lunedì 28 ottobre 2013
Monopoli, profumo di leadership
Il Monopoli crede
compiutamente di poter ancora pretendere molto da se stesso. E il successo
recuperato a Grottaglie, nell’ultima trasferta, consolida certe convinzioni.
Scalfite, ma non per questo cancellate, appena una settimana prima: quando la
meno nobile Puteolana aveva imposto, al Veneziani,
il pari alla gente di Claudio De Luca. Questa volta, sull’erba di casa, si
presenta il Gladiator: giovane (in panchina solo under) e niente affatto abbottonato. Ancorché infiacchito da troppe
assenze. Un avversario che affronta l’impegno tenendo la palla a terra,
cercando di giocarla: e non solo per tenere lontano dalla propria area l’artiglieria
di casa. I casertani sono tutt’altro che inguardabili, per capirci. Ma, evidentemente,
assai poco corazzati alle intemperie. E, dunque, affondano troppo presto. Sì:
il Monopoli passa dopo dieci minuti (Montaldi), raddoppia dopo quattordici giri
di lancetta (deviazione di un difensore campano, su traversone secco di
Stambelli) e, al minuto venti, chiude definitivamente la questione (Di Rito).
Il match, dunque, smarrisce immediatamente ogni stimolo, si priva di
palpitazioni ed emozioni e veleggia placido, da sùbito, verso la sua naturale
conclusione, macerandosi nelle ovvietà di una situazione che non possiede più
alcuna storia. Non ci sono molte parole da aggiungere: chi gode del largo
vantaggio lo governa senza assilli, riducendo tensione e fatica. E chi si
ritrova sotto si accontenta di limitare i danni. Lo score, per la cronaca, cambia ancora nella seconda metà della
ripresa (va a segno anche il cloured
Adeshokan, appena inserito in luogo di Di Rito): ma non accade altro: davvero.
Successo facile: molto più facile del previsto. Che minimizza anche
l’indisposizione di Laboragine (ma sarebbe stato interessante confrontare in un
test più credibile il centrocampo
varato per l’occasione da De Luca, che schiera Marini al fianco di Lanzillotta
e Camporeale, a ipotetico vantaggio dell’equilibrio tattico). Eppure, le
notizie più liete arrivano in coincidenza della fine delle altre gare in
calendario: il Matera pareggia in casa, il Marcianise pure, il Brindisi perde.
Vince solo la Turris,
a Vico. Dunque, il Monopoli schizza in testa alla classifica, seppur in
coabitazione: a quota diciannove anche il Marcianise e, appunto, la Turris. In definitiva, la
domenica diventa affascinante. Perché la zona più nobile del campionato sembra
recuperare definitivamente la formazione adriatica: cioè una delle più attese,
alla vigilia. Attenzione, però: il girone resta assai livellato. E ancora non c’è
il collettivo che può scavare la differenza tra sé e il resto del gruppo. Il
confine tra chi precede e chi insegue è sempre più labile: facciamocene una
ragione. E, soprattutto, tutti possono battere chiunque. Sarà conveniente
ricordarsene. Inoltre, le vittorie troppo semplici possono persino fuorviare,
distorcere la realtà. Significa che il Monopoli non può cullarsi. Ecco, l’abbiamo
detto.
domenica 27 ottobre 2013
Bisceglie e Manfredonia, ombre e chiarori
Oggettivamente, il momento del Bisceglie è delicato. E il cambio di panchina (ancora recente: Favarin per Francesco Bitetto) sembra non aver ancora del tutto guarito i problemi di un gruppo accreditato sin dall’avvio di buone chances, ma immediatamente arenatosi nelle complicazioni di percorso (una su tutte: la tenuta dei novanta minuti), a neppure un quarto di stagione. E neanche il momento del Manfredonia è propriamente florido: e non solo per una questione di continuità (la sensazione è che squadra di Cinque potrebbe puntare a qualcosa in più, se magari sfruttasse meglio gli impegni sul proprio terreno di gioco). Il derby del Miramare, anticipo televisivo del sabato, pur promettendo di chiarire qualcosa, fallisce sostanzialmente il compito. E, anzi, rafforza certe convinzioni: Bisceglie e Manfredonia vivono di ombre e chiarori, di slanci genuini e involuzioni improvvise. Sipontini e stellati, in coda a novanta minuti disomogenei, si dividono tempi e spazi, opportunità e reticenze: prelevando dall’erba sintetica un punto ciascuno. Che deve obbligatoriamente sanare la fame di tutti. Si parte: e il Bisceglie ci mette più personalità, più geometrie. Le ripartenze funzionano e tengono i padroni di casa lontani dalla porta di Iurlo. Il sigillo del vantaggio, anzi, è meritato. Il Manfredonia è un po’ sfiatato e manovra con impaccio: capisce, però, che intensità e quantità possono aiutare. Il pareggio, maturato proprio in apertura di secondo tempo, sovverte di fatto molti equilibri: rinvigorendo i dauni e sgonfiando gli ospiti, ormai in difetto di lucidità. Poi, Portosi ne approfitta e inganna Iurlo: rimonta completata. Il Manfredonia, però, non regge. E il Bisceglie si affida all’orgoglio e alle finalizzazioni di Titone (due gol per lui). Eppure, è proprio la gente di Favarin ad aprirsi (più volte) e consegnarsi al rischio di perdere una partita in cui finisce per concedere tanto. Alla fine, è due a due: senza troppa allegria. Ed un pareggio che non argina le apprensioni e che neppure risolve i quesiti: rimandando a nuovi collaudi.
sabato 26 ottobre 2013
Foggia, i punti arrivano anche a Cosenza
E’ da un po’ di settimane che il Foggia sorride. Per i punti che arrivano, finalmente puntuali (la svolta sembra essere stato il derby con il Martina: tre a zero a favore senza complicazione alcuna). E per le trame di gioco, adesso mediamente molto più che rassicuranti. Malgrado, negli ingranaggi dello scacchiere di Padalino, si addensino ancora amnesie locali e insicurezze individuali (l’assetto difensivo non è sempre irreprensibile, dietro e nel mezzo la lievitazione di qualcuno coincide puntualmente con le contemporanee esitazioni di altri singoli, che compromettono la tenuta dei reparti, la vena realizzativa non brilla per continuità). Però, è un mese che la squadra prende punti. Più o meno da quando il miglior artigliere della scorsa stagione, Giglio, ha riconquistato intimità con il gol. Ed è un mese che il collettivo respira: dopo aver abbandonato i bassifondi scomodi e aver recuperato autostima nell’affollato centroclassifica del girone. Dove, è bene ricordarlo, è e sarà necessario garantirsi regolarità, per recuperare uno dei tagliandi per l’ammissione alla prossima serie C unica: che resta l’obiettivo del club. Ora è un po’ più solido, il Foggia. E lo dimostra anche a Cosenza, nell’anticipo del venerdì, in casa della prima forza del torneo. Soffrendo in partenza (i calabresi impattano sul match con più autorità, giocano meglio la palla e spingono, realizzando abbastanza presto il sigillo del vantaggio e gestendo, sino all’intervallo, una partita caratterizzata dai ritmi bassi) e riemergendo alla distanza, nella seconda frazione di gioco. Il pari sgorga, cioè, appena Agnelli e soci decidono di affrontare l’impegno con maggior densità e più densità. Dopo che un acuto di Giglio è stato invalidato dal direttore di gara (offside). Il particolare più interessante, tuttavia, è che il Foggia cresce e reagisce nonostante l’inferiorità numerica su cui è inciampato (Pambianchi interviene su un avversario senza coordinazione e lucidità, rimediando il secondo cartellino giallo nell’arco di pochi minuti: giusto così). Lasciando all’avversario poche recriminazioni. Dunque, questa squadra non è il meglio che la tifoseria possa pretendere. Ma, anche così, appare perfettamente inserita nella realtà di questa quarta serie: in cui basta innanzi tutto conservare la compattezza e le qualità caratteriali. Preoccupandosi, talvolta, di inventarsi qualcosa. Gente come Agnelli, Quinto, Giglio, Leonetti e Agostinone, allora, serve proprio in quest’ottica. Nella speranza che le leggerezze, in fase di non possesso, si riducano sensibilmente (vero, D'Angelo?). Chi ha guardato il match di ieri, l’ha capito: una volta per tutte.
martedì 22 ottobre 2013
Grottaglie, ora Bosco rischia
Partenza più che decente:
qualche punto, anche pesante, buone recensioni raccolte qua e là e,
soprattutto, un paio di successi di spessore e di prospettiva (quello sul
neutro di Matera, nella casa temporanea del San Severo, e quello di Francavilla
sul Sinni, di fronte a due concorrenti dirette della lotta per la
sopravvivenza). Poi, l’infiacchimento: dell’intensità, della concentrazione. E
la flessione: comportamentale, ma anche tecnica. Il Grottaglie, cioè, recupera
in fretta quelle posizioni di classifica a cui gli osservatori l’avevano
obbligata, in sede di previsione: sull’orlo del burrone. E’ il destino amaro di
una società che non può concedersi spese suppletive, di una squadra costruita
in sana economia e che, anzi, è persino riuscita a dotarsi di qualche
possibilità in più del previsto. Senza, però, corazzarsi di grandissima
esperienza complessiva e di fantasia facilmente spendibile. La composizione del
suo calendario, tuttavia, spiega qualcosa: più soft in avvio, si è indurito con il passare delle giornate. Nelle
ultime due settimane, l’Ars et Labor ha incrociato la strada di Matera e
Monopoli, ad esempio (risultato: due sconfitte). E, peraltro, va incontro al
derby di Taranto (domenica prossima, allo Iacovone).
E, questa, un’attenuante da considerare, oggettivamente. Anche se è difficile
negare quello scollamento con la realtà che lo stesso Bosco, il tecnico, ha
denunciato già un paio di settimane addietro. E che pure il club ha
riconosciuto: addossando la responsabilità anche e soprattutto all’infinita
trattativa tra l’attuale gruppo dirigente e la cordata Picchierri, intenzionata
a rilevare le quote sociali (l’impressione, però, è che il passaggio di
consegne non decollerà mai: tanto che il colloquio è stato interrotto per la
seconda volta, forse definitivamente). In sintesi: realisticamente, al
Grottaglie mancano i punti persi in casa con la Gelbison, concorrente
alla portata. O con il Gladiator. Non certo quelli di Matera. O quelli lasciati
al Monopoli, seppur in coda ad una gara interpretata con scarso vigore. In cui
l’avversario si è imposto con la concretezza, più che con la manovra. Ora,
ovviamente, è l’allenatore a rischiare. Bosco, per la verità, sembra aver dribblato
l’esonero: almeno per questa settimana. Ma il responso del derby di Taranto
dovrebbe essere indicativo. Anche se la prestazione dovesse essere
soddisfacente, ci sembra di capire. A questo punto, tuttavia, diventa difficile
spiegarsi la fiducia accordata - com’era giusto che fosse - al coach sin da
agosto e poi ritirata in coincidenza con le partite ragionevolmente più
impegnative. A meno che, ovviamente, il
club non ritenga l’allenatore responsabile dell’atteggiamento rilassato
dell’organico, da un po’ di tempo a questa parte. Del resto, a microfoni
aperti, un difensore di lungo corso come Antonio Anglani raccontava una verità:
quei punti, anche un po’ inattesi, raccolti in avvio di stagione potrebbero
aver sovralimentato gli appetiti o allontanato l’ambiente dalle finalità
dichiarate o, più semplicemente, dalla esigenze del campionato.
domenica 20 ottobre 2013
La personalità nuova del Taranto
Aldo Papagni è uomo quieto, di buon senso. Un
psicologo, ancor prima che un gestore tecnico. Un amico, prima ancora che un
condottiero. E persona saggia: che allena gli uomini, ancora prima che i
giocatori. Quanto di meglio, cioè, per rilevare il compito di Enzo Maiuri e per
provare a risollevare il Taranto, nove punti in sette partite, morale bassissimo,
ambiente già in fermento. Ascolta la proposta, risolve il contratto che lo
legava dalla scorsa stagione al Sorrento, accetta la sfida e ritrova una piazza
che ha già avuto occasione di amarlo e che lo ama ancora (una promozione dalla
C2, sette anni fa): arrivando quasi a metà settimana. Giusto in tempo per
capire quello che serve, psicologicamente e tatticamente, alla squadra che
arriva da tre delusioni cocenti di fila e che affronta, nell’anticipo del
sabato, un avversario sdrucciolo come la Puteolana di Potenza. Il coach biscegliese,
allora, deve strettamente affidarsi alle intuizioni. La prima, la più
importante: continuare a blindare la linea difensiva, però
senza dimenticare di sviluppare la fase di possesso. Approfittando, il più possibile, dell’immenso
potenziale offensivo dell’organico. L’approccio alla seconda esperienza in riva
ai due Mari, tuttavia, è brutale: quaranta secondi appena e Puteolana in
vantaggio. Roba da ammazzare un gruppo già sufficientemente provato e, dunque, insicuro.
E, invece, no. Il Taranto reagisce. Perché è vivo. Ed è dinamico. Adesso,
Mignogna e soci cercano e trovano la profondità. E poi lo svantaggio appena
sofferto solletica l’orgoglio di under
e over. Dopo venticinque minuti di
dominazione assoluta arriva il pari (il discusso Ciarcià colpisce
indisturbato): giusto così. Il sacro furore, da qui in avanti, si placa:
eppure, la squadra appare molto più cerebrale del recente passato. Tenere il ritmo
di gioco molto alto è difficile: ma il Taranto fa sempre qualcosa in più (e di
meglio) dell’avversario. Che, tuttavia, si procura un penalty, sbagliandolo.
Dagli undici metri, piuttosto, non fallisce Molinari, poco più avanti. Sembra
il sigillo definitivo su un successo beneaugurante ed incontestabile: però,
proprio a recupero inoltrato, i campani rimediano il due a due finale. Che
sinceramente, alla gente di Papagni stona un po’. Un punto è poco, certo: ma
quello che spunta attorno può valere molto di più. Il progresso evidente, anche
sul piano della personalità, potrebbe diventare moneta pregiata in tempi brevi.
sabato 19 ottobre 2013
Bari, non è il momento dell'accademia
La gioventù è bizzarra e,
tante volte, non assicura continuità. Nel pallone, aiuta a contenere le spese di
gestione: ma non garantisce linearità all’evoluzione di un progetto. E il Bari
giovane è quel che avevamo sospettato di dover commentare, nel corso di questa
stagione puntellata da molti punti interrogativi: una squadra che vive di acuti
e debolezze. L’avevamo salutato immediatamente dopo il successo ottenuto sul
Palermo: ed ora, neppure un mese più tardi, siamo costretti a condividere qualche
preoccupazione. Il rovescio di Cesena, maturato ieri, riconsegna la formazione
di Alberti e Zavettieri ad una classifica perigliosa e afflittiva (a turno concluso,
stazionano dietro soltanto Padova e Juve Stabia). Ma, soprattutto, cominciano a
sgomitare un po’ di domande. Una, tra le altre: è il caso, di fronte alla
cronica necessità di collezionare punti, applicarsi con superficialità o,
peggio, rilassatezza? Il problema è che, mentre i romagnoli professano
concretezza e sfoggiano solidità, il Bari si perde in troppe frivolezze,
accettando la realtà soltanto dopo l’intervallo: quando, cioè, la situazione è
abbastanza compromessa. Ovvio, il giovane Bari deve forgiarsi: e formarsi
significa passare anche e soprattutto attraverso esperienze come questa. Da un
gruppo rampante, ecco, è persino logico attendersi incertezze, amnesie,
supponenze, ingenuità. Ed altro ancora. Ma non proprio il difetto di coraggio o
la voglia di sopperire al deficit
strutturale con la quantità. Se una squadra come il Bari, per capirci, crede di
poter risolvere uno scontro delicato con l’accademia, non ci siamo. Potrebbe
trattarsi, comunque, di un momento. Di una distrazione. Del resto, l’avvio di
stagione un po’ affaticato è stato, anche abbastanza presto, compensato. E, prima
della nuova situazione di impasse, di
questa squadra si parlava universalmente bene. E non lo dimentichiamo. Come non
dimentichiamo, comunque, i primi quarantacinque minuti di Cesena. Dove il Bari
è quasi sembrato sazio. O non totalmente coinvolto. Il particolare non può
lasciare indifferenti.
giovedì 17 ottobre 2013
San Severo, un punto di prestigio
L’oblio del calcio regionale, neppure in posizioni di avanguardia. Troppi anni di anonimato e di depressione calcistica. Poi, investimenti mirati e un progetto più sostanzioso. E il rilancio. In pochissime stagioni, il San Severo si arrampica e riconquista i riflettori della serie D. Ovviamente, riacclimatarsi è un’operazione lenta, da gestire con pazienza e realismo. E, oltre tutto, questo campionato di quinta serie è di spessore più che discreto, nelle sue fasce più deboli: la concorrenza per la permanenza è qualificata e si fa sentire. La formazione di Rufini, però, comincia bene, vincendo fuori casa all’esordio. Per poi, tuttavia, riconoscere le difficoltà (previste) del percorso. Sette match dopo lo start, la dote è di cinque punti (quel successo repentino e due pareggi): dietro, in classifica, solo il superpenalizzato e disgregato Nardò, già virtualmente retrocesso. E, sullo stesso gradino, soltanto il Metapontino. Traduzione: c’è da soffrire. Ma l’ultima uscita, in ordine di tempo, lascia un sapore buono. L’uno a uno sul campo del Taranto, la grande malata del torneo, arriva proprio al novantesimo (Polani entra a partita in corsa, timbrando l’episodio decisivo: soprattutto per il coach jonico Maiuri, sollevato dall’incarico appena un’ora più tardi), difendendo il diritto dei giallogranata di sentirsi legittimi proprietari di un punto sostanzialmente meritato. Il San Severo si cautela sin dall’inizio e si ritrova in inferiorità numerica, ma complessivamente non sfigura. Gioca per il punto e l’ottiene, con umiltà. E, quando si distende, coglie persino una traversa.. Approfitta, questo è evidente, delle esitazioni e del malessere diffuso dell’avversario. Rispondendo con una prestazione più concreta e solida, però, a certe critiche piovute in coda alla gara precedente (dauni in vantaggio e poi rimontati e superati dal Monopoli, sull’erba artificiale di Agnone, sede neutra). Oltre tutto, la squadra - che ancora non può esprimersi sul proprio terreno di gioco, indisponibile: è sempre una attenuante - salva il proprio condottiero, ritenuto sotto osservazione. Ingiustamente, forse: perché l’elenco degli arruolabili a sua disposizione è dotato di esperienza in qualche ruolo chiave, ma è oggettivamente anche bisognoso di qualcos’altro. L’abitudine ad imporsi consolidatasi negli ultimi anni, del resto, può aver indirizzato il club verso cattivi consigli. Oppure, probabilmente, certe attese maturate prima dell’inizio di questo campionato si sono sovralimentate illegittimamente. Attese che il pareggio di Taranto, peraltro, potrebbe aver risvegliato all’improvviso. Solo il tempo, allora, farà sapere se il risultato di prestigio ottenuto allo Iacovone è uno stimolo nuovo o un insospettabile impaccio.
mercoledì 16 ottobre 2013
Brindisi, come complicarsi il cammino
Tutto procede, meglio di prima. Prima supera il Taranto, nel derby. Con merito innegabile, neutralizzando un po’ di scorie recenti. Poi, sette giorni più avanti, regola agevolmente il modesto Nardò, con sette reti di scarto. L’umore buono cresce, certe geometrie si consolidano, Pellecchia torna a segnare, Gambino continua a colpire, lo scacchiere lievita in personalità, la sopraggiunta serenità aiuta a solidificare squadra e programma. Programma che resta finalizzato ad un campionato di alto profilo, pensato per infastidire le formazioni più accreditate del girone H della quinta serie e per preparare l’assalto al professionismo, tra dodici mesi. Sempre che l’imprenditoria locale, come ricorda un’altra volta patron Flora in diretta televisiva, si ricordi di sovvenzionare – come promesso - il progetto: che, altrimenti, rischia di impantanarsi prima del tempo. Prima della fine della stagione, addirittura. La gente che tifa, però, apprezza gli sforzi del club e il calore popolare riconquista, giorno dopo giorno, spessore. Brindisi, cioè, sembra velocemente riappacificarsi con il calcio. E, invece, l’impalcatura comincia a scricchiolare in un martedì di normale amministrazione. E’ sera, il presidente spiega le prospettive future e il suo modo di intendere il pallone nel salotto di un’emittente locale. Parla di Ciullo, un tecnico a cui – dice – si è completamente affidato. Anche al di là delle semplici questioni tattiche. Il coach, cioè, gli ha suggerito dei nomi, buoni per rafforzare l’organico. E, se tutto va come deve, Flora proverà ad accontentarlo. Per operare, aggiunge, non ha bisogno di intermediari o di procuratori. Gli basta la parola del suo allenatore. Parole che, evidentemente, feriscono il direttore generale Carbonella, che poi è – di fatto – anche il gestore delle manovre di mercato della società. E, allora, il diggì interviene telefonicamente, senza risparmiarsi la stizza. I toni del confronto tra i due dirigenti si fanno immediatamente aspri. La diretta televisiva si infiamma, senza preavviso. Flora suggerisce al suo collaboratore più stretto di dimettersi, se non gradisce la linea. E Carbonella raccoglie l’invito, assicurando di averlo già fatto (quando?). Il conduttore, sorpreso e frastornato, fatica a capacitarsi di quanto accade e a limitare il danno (di immagine, ma non solo) ormai già procurato. Quindi, la trasmissione sfuma in fretta, come a liberarsi di se stessa. Imbarazzi a parte, diventa difficile capire perché, ad esempio, lo strappo sia stato consumato davanti ad una piazza assetata solo di buone notizie. E non, com’era naturale che fosse, all’interno della sede del club. E, poi, non sarebbe male sapere quali sono le cause che hanno disegnato la frattura tra presidente e direttore generale (lo sfogo di Carbonella appare la conseguenza diretta di un antefatto: e Flora, tra le righe, lo lascia intendere). Infine, lo stesso Carbonella parla espressamente di un giochino di potere, attribuendolo al numero uno. Restiamo in attesa di chiarimenti. Nel frattempo, le nubi si riaddensano. E sull’Adriatico si riscopre quel gusto antico di complicare sempre tutto.
martedì 15 ottobre 2013
Rallenta anche il Monopoli
Le più titolate indugiano. Il
Taranto non sa più vincere e, sotto la spinta emotiva di una nuova delusione,
si libera di coach Maiuri. Il Bisceglie (che, comunque, con Favarin in panca
torna al successo) è ancora attardato. Il Matera, pur reagendo alla prima
caduta stagionale, contabilizza quattro gol al passivo in una sola settimana. La Turris, sin qui mai
seriamente fiorita, si schianta a Marcianise, nel match che dovrebbe soppesarne
la raggiunta maturità. Il Brindisi passeggia su quel che resta del Nardò in campo neutro e si
regala un po’ di regolarità nel passo, ma deve crescere ancora. Il girone
appulocampano di serie D è questo: piaccia o no. Non c’è, del resto, una realtà
come l’Ischia della scorsa stagione, ad esempio. E, allora, se ne avvantaggia
il Marcianise, neopromossa di sostanza che non sbaglia praticamente nulla.
Puntando sul collettivo e sul suo buon umore. Quel Marcianise che nessuno
sospettava di dover temere. E che un po’ ricorda il Gladiator di un anno fa. Infine, c’è il
Monopoli, un’altra big che potrebbe
scrollarsi gli ultimi torpori e sbocciare definitivamente, inserendosi sulla
scia della capolista inattesa. Basterebbe sbarazzarsi - in casa, nel posticipo
- della Puteolana, titolare di una classifica dimessa. Cioè, conquistare il
terzo risultato pieno di fila. Ma anche la formazione curata da De Luca sbanda
un’altra volta, sconfessando il progetto. Finisce zero a zero, l’occasione è
sciupata. E non serve neppure criticare la ruvidezza dei campani, scorbutici,
smaliziati (anche i suoi under
appaiono decisamente scafati) e oggettivamente fallosi. No, anzi: la Puteolana si disegna la
sua gara e la porta avanti sino in fondo, malgrado l’inferiorità numerica
maturata già nella prima frazione. Resistendo con dignità e decisione anche
alla maggiore pressione monopolitana, esercitata nel quarto d’ora che segue
l’intervallo. E poi la formazione di Potenza non si rifugia in trincea, ma
pensa persino a qualche ripartenza tutt’altro che formale. Sono, piuttosto,
proprio Lanzillotta e soci a creare problemi a se stessi. Il Monopoli è pigro,
contratto, arruffato. Si lascia irretire dall’avversario e, quando il tempo
comincia a scorrere, trova pochi metri quadrati in cui esprimersi. Ma,
soprattutto, non approfitta dei vantaggi che, dal punto di vista tattico, la Puteolana – sistemata
con un centrocampo a rombo, quindi molto raccolto – gli offre. La gente di De
Luca, cioè, va ad intasare gli spazi centrali, già abbondantemente coperti dai
campani, rinunciando ad allargarsi. Certe gare si possono vincere sulle corsie
esterne: invece, niente. Qualcosa di più e di meglio arriva, appunto, agli
albori della ripresa: prima che gli spazi si attoglino rigorosamente. Ancora: a
fronte di una sola punta da sorvegliare, la linea difensiva rimane ancorata
alle quattro pedine di partenza. E, magari, neppure questo particolare aiuta.
Ma tant’è: certe partite nascono così, sono segnate. Di sicuro, però, così come
il Brindisi o la Turris,
come il Bisceglie o lo stesso Matera (del Taranto non parliamo nemmeno), anche
il Monopoli non sembra ancora pronto a sostenere un serio dialogo al vertice.
Lo dicono i numeri, ma lo dice soprattutto il gioco.
lunedì 14 ottobre 2013
Imbarazzante, irritante Martina
I tre gol (a zero) di Foggia, sofferti sette giorni prima, pesano parecchio
sul Martina. Che, ormai esaurito il break
di un paio di settimane decisamente più rassicuranti, si riscopre nuovamente
piccolo e povero. La prestazione di ieri, di fronte al nuovo viceleader del girone Teramo, è
imbarazzate. No, di più: irritante. Perché l’analisi va approfondita
necessariamente oltre il risultato (scabroso: uno a quattro al Tursi) e dirottata sui comportamenti
della squadra (molle, frenata, appesantita, svogliata, anche a svantaggio
acquisito) e sugli atteggiamenti collettivi (rincorrere presuppone
determinazione, volontà e coraggio: e rimediare diventa praticamente
impossibile, se troppo spesso nove elementi su undici si raccolgono dietro la
linea della palla). Gli abruzzesi non aggrediscono tanto e non viaggiano
neppure su ritmi alti (ma la cortesia è ampiamente ricambiata, va detto): però
il Teramo è più compatto e solido, fa viaggiare il pallone, pratica un calcio lento ma pulito, conosce
le geometrie e il concetti di inserimento. Sbloccare lo score, prima della mezz’ora di gioco, è facile: poi, la formazione
di Vivarini si contiene e sembra non voler infierire (quel torello, a metà match, è antipatico: per il Martina, ovviamente). Il
raddoppio, comunque, arriva ugualmente. E la gente di Bocchini si ribella
troppo tardi, quando manca una manciata di minuti alla chiusura delle ostilità.
Certo, il recupero lungo accordato dal direttore di gara accorre persino in
soccorso di Leuci e compagni: ma, in realtà, finisce per offendere i sentimenti
della tifoseria di casa (arrivano, cioè, il terzo e il quarto sigillo
teramano). Gran brutta figura, in sostanza. Scolpita, più che dall’appurato deficit tecnico (che l’indisponibilità
di Petrilli aggrava), dalla scarsa reattività
- anche e soprattutto nelle situazioni di ripartenza concesse
dall’avversario - e dal debolissimo spessore caratteriale del Martina.
Tatticamente, il tecnico cambia la pedina che staziona davanti la difesa (non
più Gai, ma De Lucia, almeno per un tempo, perché poi torna tutto come prima):
al di là degli uomini, tuttavia, la squadra non sa replicare e non riesce a
guadagnare densità in mezzo al campo, né può vantare un minimo di personalità:
dissipando pure quelle coordinate pulite di un tempo. In coda al rovescio,
intanto, i numeri incombono (terz’ultimo posto) e il morale cala. Oscurando
pure la buona notizia degli ultimissimi giorni: il club, adesso, può respirare
con l’aiuto economico garantito da un nuovo socio, il bresciano Gherardini. Che
potrebbe (dovrebbe) regalare qualche rinforzo (ne servirebbero tre, quattro): a
gennaio e, magari, anche prima (occorrerebbe, perciò, sondare la lista degli
svincolati). Ma non sarà semplice operare: perché sbagliare le scelte è
vietato.
lunedì 7 ottobre 2013
Brindisi su, Taranto giù. E Maiuri rischia
Brindisi-Taranto,
all’improvviso, diventa un derby di alto valore. Per i due tecnici,
essenzialmente. Ciullo, il caudillo
adriatico, si ritrova a sgomitare tra le prime critiche mirate: la squadra,
sicuramente più carrozzata di quella della scorsa stagione, non duplica più
molte giocate di allora e non sviluppa quel calcio largo e tagliente dei suoi
giorni migliori. La manovra si è un tantino involuta e sembra difettare anche la
personalità necessaria per inseguire il risultato. E Maiuri, coach che lavora
in riva ai due Mari, è già un osservato speciale: la formazione probabilmente
più titolata del campionato, sùbito dopo il Matera, si apre troppo spesso sotto
il peso delle insidie degli avversari di turno e sembra soffrire la scarsa
predisposizione della mediana ad assicurare un filtro rassicurante. Tanto che i
risultati non arrivano (l’ultima prestazione è coincisa con la caduta casalinga
di fronte alla Turris e, prima ancora, soltanto un finale di gara grintoso
aveva garantito il pareggio a Bisceglie). Lo scontro incrociato, così, si tinge
di apprensioni. Che il Brindisi supera con la volontà e con la determinazione
che occultano certe distonie (troppi lanci lunghi, fraseggio continuo, ma
talvolta affaticato), mentre il Taranto – confuso, contratto, impaurito,
scollegato, abbastanza fermo – affonda. Vince (due a zero) la squadra più
meritevole, cioè quella meno sgranata, quella più coraggiosa. Quella che tiene
più palla, che copre meglio il campo. E che cerca il successo, sin dall’avvio.
Legittimandolo prima dell’intervallo, quando costruisce il meglio, prima di
raddoppiare (Gambino è sempre più leader
della classifica riservata agli artiglieri del torneo). Perde il collettivo che
approccia il match con troppe riserve mentali e con un impianto che assicura più
protezione alle retrovie (due mediani davanti a Miale e Pulci centrali di
difesa, dal momento che Prosperi torna sull’out
sinistro), ma non la creatività. Ma, se nella zona nevralgica Menicozzo
battaglia, il coloured Muwana osserva
e basta. Servirebbe, perciò, che uno tra le due punte Clemente e Balistreri e
il fantasista Mignogna galleggi tra le linee, per catalizzare palle e gioco: e,
invece, niente. Senza ritmi e senza idee, cioè, non si va da nessuna parte.
L’acciaccato Carloto, uno abituato a pensare, entra a gara ormai compromessa,
quindi troppo tardi. Il Brindisi, più vivo e più in partita, rischia in un paio
di occasioni, ma gestisce il doppio vantaggio senza troppe fibrillazioni.
Autoalimentandosi, probabilmente, con i correttivi tattici adottati da Ciullo (il
vecchio 4-4-2 si trasforma in 4-3-3 e, se non altro, Pellecchia se ne
avvantaggia). Resistono, tuttavia, alcune sensazioni: gli adriatici, seppur in crescita, non
sembrano ancora pronti per affrontare le insidie di un campionato proiettato
verso le primissime proiezioni (necessita una manovra più lineare, più pulita).
E questo Taranto, partito per vincere, oltre alla tranquilla permanenza – oggi –
non può ambire.
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