giovedì 5 dicembre 2013

Bisceglie, dalla rifondazione al disimpegno



Il Bisceglie zoppica ancora. E, pur tranquillizzando la sua gente per soli sette giorni (pari a Torre del Greco, con onore e rimpianti), torna sùbito a sbandare. Consigliando il patron Canonico a riconsiderare l’idea di investire: sul mercato di riparazione, è ovvio. Tanto che il ventaglio delle possibilità si allarga progressivamente: cominciano, così,  a circolare nomi suggestivi, rinforzi preziosi. L’ultima performance, però, si trascina imbarazzi inimmaginati: la caduta, nella nebbia di Lucera, in casa del San Severo, è rovinosa. E la manovra improponibile. Ma c’è di più, purtroppo: la tifoseria, stressata, non accetta spiegazioni. E insorge, veemente. Al rientro dall’ultima trasferta, la squadra è accerchiata, sbeffeggiata, insultata. Nell’assalto, non solo verbale, maturano spintoni, forse anche schiaffi. Qualche effettivo dell’organico, colpito, comunica di voler cambiare residenza calcistica, immediatamente. E, allora, già sufficientemente provato dall’esperienza sull’Adriatico, ovvero pentito di una scelta rinnegata anche nel corso della stagione sportiva passata, il presidente interviene con chiarezza. Duramente. Stop alla campagna di rafforzamento, innanzi tutto: Strambelli, dunque, si muove da Monopoli, ma si sistema ad Andria, in Eccellenza. E lo stesso fa Di Rito, il miglior realizzatore del campionato scorso, proprio a Bisceglie. Via i pezzi più interessanti (Titone, ad esempio, si sistema a Matera). E, ovviamente, nuove dimissioni. Irrevocabili: come qualche mese fa, è vero. Ma, questa volta, più pericolose. Più credibili. Il Bisceglie, all’improvviso, si ritrova senza sovvenzioni. Senza guida. Con un titolo teoricamente in vendita. Senza un organico competitivo. E con la prospettiva di dover affrontare il resto del torneo con la formazione Juniores. Anche e soprattutto perché altri emigreranno, da qui sino al diciassette dicembre, data di chiusura della seconda sessione di calciomercato. Eppure, non ci sentiamo di censurare l’operazione di Canonico. Niente affatto. Anzi, ci sembra una buona idea. Anche se coincide con il fallimento ufficiale di un progetto e anche se dovesse accompagnare lo stato d’agonia di un club storico, titolato. E’ una buona idea perché non si può e non si deve, sempre e comunque, fingere di non vedere e di non capire. Perché, a queste condizioni, non regge il sacrificio di uno o più imprenditori: al netto degli errori e di tutto il resto. Perché è il momento di cominciare a tracciare una linea, in fondo alla pagina. E di calcolare controindicazioni e benefici di ciascuna avventura calcistica. E perché le illusioni (e, eventualmente, le disillusioni) non devono sistematicamente spingerci nel fango di un tifo miope o, peggio, illegale. Del problema specifico, altrove, se ne parla, anche troppo: e fioccano messaggi privi di soluzione. Quello di Canonico, invece, è un segnale concreto: sempre che la decisione venga confermata, come sembra. Un segnale che presuppone un’azione precisa. Che va condivisa. Seppur con dolore.