martedì 29 maggio 2012

Taranto, finisce male. E prima del tempo


Sarà una questione di cabala. Perchè il Taranto non supera l'ostacolo dei playoff nemmeno quando è la squadra tecnicamente migliore, tatticante più scaltra e strutturalmente meglio attrezzata del lotto. Nemmeno quando parte con il vantaggio che la regular season gli aveva riservato, cioè il secondo posto. Neppure quando la caratura del gruppo (più forte dei dissidi interni, delle polemiche soffocate e di una sempre più evidente carenza gestionale della società) permette di assegnargli i favori del pronostico, nonostante tutto. Neanche quando, sul campo, fa più punti di chiunque, finendo per doversi applicare agli spareggi promozione per pura cattiveria del destino o per eccessiva ipervalutazione di un progetto partito bene e stroncato sulla strada. Oppure sarà una questione ambientale. Perchè, quando si parla di pallone e, soprattutto, di serie B, la città riesce a riversare sulla squadra una pressione troppo pesante da sopportare. Perchè i playoff e l'obbligo di vincerli finiscono per decurtare un po' di lucidità, intaccando le possibilità di un collettivo arrivato un po' stanco (mentalmente, fisicamente) davanti al traguardo. Oppure, ancora, sarà una questione di semplice ineluttabilità degli eventi. Perchè il Taranto, a Vercelli, in gara uno di semifinale, forse (ma anche senza il forse) può legittimamente lamentarsi per la contrarietà di certi episodi (due reti annullate, almeno una ingiustamente). Che, poi, finiscono per pesare nel match di ritorno, quello di domenica scorsa, allo Iacovone. Dove la gente di Dionigi, obbligata a segnare, vede passare i novanta minuti troppo in fretta e invano. Eppure, nel momento più delicato, il Taranto più affidabile si eclissa, fermandosi di fronte all'ordinata resistenza della Pro Vercelli di Braghin. Pagando in un'unica soluzione, verrebbe da pensare, anche il triste declino del club e la sua sfilacciata situazione economica, peraltro mai ammessa chiaramente dalla proprietà. Oltre che un certo nervosismo sostanziale, più volte camuffato dai risultati e molto meno nascosto dall'agitazione perenne dell'allenatore. In cui, è stato detto più volte, la squadra si è sempre specchiata, fuori e dentro del campo. In realtà, però, il padre di tutti i mali è la corposa penalizzazione (sette punti), attorno alla quale si è modellata una stagione che sembrava dovesse essere quella giusta. E che, invece, si è trasformata in una delle tante. Ovvio, allora, che sui due Mari si crocifigga già il primo e unico colpevole, cioè D'Addario. Che, di sicuro, nel corso della propria avventura sportiva, ha speso cifre persino importanti, ma - talvolta -anche speso male. Per scarsa conoscenza della materia, ma anche per supponenza. Un deficit (grave), del resto, non sorge per caso. D'Addario, è chiaro, paga (e pagherà) il suo cattivo approccio al calcio, alla piazza, alla quotidianità. Tanto da sollevare da qualsiasi responsabilità Dionigi e i giocatori. Che, davanti alla tifoseria, transitano da vincitori: malgrado il fallimento dell'obiettivo. Se non altro, per l'attaccamento dimostrato alla maglia in tutto il campionato e per la serietà con cui hanno affrontato i problemi. Un fallimento che, non è un'ipotesi da scartare, potrebbe annunciarne un'altro, molto più grave. Perchè il buco nel bilancio resta. Mentre la B è svanita. E, senza la B, i potenziali compratori potrebbero facilmente scoraggiarsi. Oppure, preferire lo shopping in tribunale. Catastrofismo becero? Magari.