giovedì 24 febbraio 2011

Il segno della resa

Calano gli stimoli (è l’ineluttabile processo di rassegnazione), cala anche l’ardore. Ovvero, quell’ultima qualità che, talvolta, può persino sovvertire il naturale sviluppo delle situazioni. Traducendo, il Bari smette di credere in se stesso e nel suo campionato, afflosciandosi definitivamente. A Roma, in casa della Lazio, la formazione (e il modulo restaurato) di Mutti abbruttisce il proprio compito (già ostico) di continuare a confidare nel domani. Arriva la sconfitta (preventivabile, è chiaro), ma anche la certezza più amara: questa stagione è totalmente compromessa. Non c’è più storia, pare. Perché il collettivo non reagisce, neppure sotto il profilo caratteriale. Senza battagliare, è difficile salvaguardarsi: soprattutto in determinate condizioni. Il Bari subisce e basta. Senza più gambe, probabilmente. E senza più cuore, sicuramente. Non entra mai in gara, è svogliato, abulico, annientato. Inutile, a questo punto, addentrarsi nell’analisi: sarebbe uno spreco di parole. Se mancano la convinzione e la grinta, è proprio finita. Al di là dei numeri, che già inchiodano: quindici punti in ventisei gare, dodici lunghezze di disavanzo dalla quota salvezza. Se n’è già accorto il nuovo tecnico: che, sussurra qualcuno, avrebbe già manifestato il pentimento della scelta di succedere a Ventura. Proprio mentre dilagano le voci (immancabili, in questi casi) di una divisione in fazioni dello spogliatoio. E se n’è accorta anche la tifoseria. I supporters più caldi, anzi, hanno protestato con estrema vivacità, alla ripresa degli allenamenti. Andando oltre: unendo agli striscioni minacce e spintoni. Estrema risposta ad una realtà senza uscita, punto di partenza di una lotta che sta per (ri)trasformarsi in guerra. Che è, paradossalmente, anche il segnale inequivocabile della resa.