martedì 9 marzo 2010

Dellisanti e quell'accusa scomoda

Sette giorni grigi (caduta a Giulianova, pari contestato dalla gente nel derby con il Foggia, in casa) bastano e avanzano per decurtare il patrimonio di simpatia e di consenso che il Taranto aveva laboriosamente reuperato nei primi due mesi dell’anno. Eppure, la classifica influisce (o dovrebbe influire) poco sugli animi popolari: perché, in fondo, la squadra di Dellisanti continua a controllare da vicino (due punti) il quartiere dei playoff, che è poi l’obiettivo di riserva dichiarato dalla proprietà. E che resta un traguardo da disputarsi, come sempre, in primavera. La gente, piuttosto, si sente tradita: tradita da un organico ritenuto finalmente affidabile e, invece, riscopertosi sbiadito. Da una squadra che subisce ancora pochissimo (anzi, niente), ma che non produce (condizione essenziale per rincorrere). Da un gruppo che, nel derby, comincia discretamente e finisce in affannno. Da un Taranto che invita tutti ad illudersi e poi disillude. Premesso che spaccare tutto è, oggi, anacronisatico (ci ripetiamo, ma la piazza è quella che è: prendere o lasciare), il calo non sfugge agli osservatori attenti. E male si combina con le parole spese affrettatamente nel corso della settimana da chi possiede il controllo del club. Parole che producono, è bene chiarirlo una volta di più, malumori e, magari, anche tensioni dentro lo spogliatoio e attese infinite al di fuori. Il calo di rendimento, e quindi anche di risultati, diventa intanto anche un calo di autostima. Che non protegge. Ma, al di là di tutto, aleggia su Franco Dellisanti un’aria strana, sempre di più. Un’aria strana e, da domenica, anche un’accusa grave. Indotto (o costertto) dalla pressione presidenziale, il tecnico avrebbe stravolto il volto tattico del Taranto, optando a gara in corso per le quattro punte e per il conseguente choc strategico. Preferendo inserire singoli più graditi a chi opera dietro la scrivania ed escludendo l’esterno Cuneaz, propedeutico al modulo di partenza. A cose fatte, peraltro, il coach confessa in parte il peccato. Ammissione che, fossero fondati i sospetti maturati nell’ambiente, non lo ripara però dal rischio di perdere per sempre l’appoggio affettivo di chi tifa. Né dalla prospettiva di vedersi, prima o poi, privato dell’incarico. E, dunque, anche beffato.