giovedì 15 luglio 2010
Casillo, Pavone, Zeman: altro giro
Un passo avanti (di Casillo). E, forse, un passo indietro (di Capobianco e del suo gruppo). Ma l’accordo sboccia: e il Foggia riabbraccia la normalità. Cioè, un nuovo padrone motivato (impensabile pensare il contrario, del resto) e una serenità amministrativa che dovrebbe permettere al club di recuperare umore e colore. Pasquale Casillo torna in Capitanata salutato da eroe, o quasi. Per quello che l’ambiente si augura che faccia e per quello che è stato. Torna, particolare importante, sostenuto dall’opinione pubblica, dalla tifoseria. Non disporrà di molto tempo, per agire. Ma gode già di un vantaggio: non deve dimostrare nulla. Né chiedere fiducia alla piazza: quella c’è già. Il presidente che ariva ha pure un piano, un programma: e questo è fondamentale. E una scorta che lo accompagna: il diesse Pavone e un coach amatissimo come Zeman. Due soluzioni dettate dal cuore, che cercano di arrivare al cuore della gente. Che sollevano entusiasmo. Che guardano, innanzi tutto, ad un rilancio mediatico dell’immagine (sbrecciata) della società. Il calcio, però, è cultura del presente. E ogni momento storico è uguale a se stesso e basta. La squadra andrà ripensata, il lavoro va reimpostato: aggrapparsi unicamente ai ricordi è dolce, ma non basta. I retaggi di tempi andati servono ad accendere il motore, ma non a carburare. Casillo, Pavone e Zeman ripartono dal nulla, o quasi. E il pericolo di ritrovarsi schiavi di un passato felice e ormai lontano è alto. Anche da quello, ma soprattutto da quello, dovranno guardarsi. Immediatamente.
martedì 13 luglio 2010
Foggia, primo passo verso la normalità
Il martirio della radiazione sembra scongiurato. Il Foggia dovrebbe ripartire: dalla terza serie.Come l’epilogo dei playout da poco affrontati (e superati) consentirebbe. Se le prime operazioni di iscrizione al prossimo campionato erano imperfette, il successivo ricorso sarà - con ogni probabilità - accolto. Merito, malgrado tutti i problemi passati e presenti, del gruppo di comando uscente, capitanato da Tullio Capobianco. Uscente perché ha – da tempo – deciso di isolarsi dal pallone. E perché una vecchia conoscenza come Pasquale Casillo sembra ancora in pole position per rilevare la maggioranza delle quote azionarie del club. Ovvio, il Foggia che verrà dovrà tenere conto della penalizzazione certa che infiacchirà il cammino. Ma, almeno, il calcio dauno sopravviverà, tra i professionisti. Evidente che, poi, occorrerà riunirsi dietro un tavolo. E trattare. Dovranno trattare Casillo e Capobianco. Perché la situazione, a iscrizione completata, dovrà necessariamente essere disciplinata. E velocemente, pure. Il passaggio di consegne, per intenderci, non è affatto scontato. Anche se, nell’ambiente, già si ipotizzano i nomi di Peppino Pavone e Zdenek Zeman, che seguirebbero Casillo: giusto per riabbracciare i vecchi tempi e il sapore dei successi di quindici anni fa. Anzi, ascoltando le parole di Capobianco, la strada è persino tortuosa: «Casillo, se vuole il Foggia, tratti con me e non parli con la stampa. Si faccia vivo. Altrimenti, lasci perdere. E ci faccia lavorare con serenità». Sottoscriviamo. Anche se immaginiamo che un imprenditore esperto come Casillo sappia come e quando muoversi: contando, magari, sul tempo che si diluisce e sulle urgenze che si alimentano. Ma la piazza merita chiarezza, innanzi tutto. E le chiacchiere, se non suffragate dai fatti, rischiano di strangolare quel poco di fiducia popolare che resta. Rischiando di invalidare pure quegli sforzi che consentiranno al Foggia di ripartire al pari con le concorrenti. Se Casillo vuole il Foggia allora, faccia una proposta, il più presto possibile. E, se il gruppo di comando uscente vuole davvero disfarsi della srl, agevoli il passaggio, sorvolando sulla forma. A luglio inoltrato, è vietato scherzare.
lunedì 12 luglio 2010
Manfredonia, game over
Manfredonia come Monopoli. Come Gallipoli. Il calcio professionistico, sul golfo, si eclissa. L’agonia è stata lunga. E parte da lontano: da un paio di stagioni, per la precisione. Doveva finire così, è finita così. I segnali, del resto, ultimamente erano forti, inequivocabli: stipendi mai pagati e sciopero (sul campo del Brindisi, all’ultima giornata del campionato apena terminato) a salveggia già acquisita. Tutti sapevano. Anche la stampa cittadina, che ha protetto il club sperando di agevolare il processo di normalizzazione, mai avvenuto. E che, adesso, comincia a raccontare qualche particolare in più: polvere secca negli occhi che non potranno più posarsi sul torneo di quarta serie. Il Manfredonia, semmai, ripartirà dalla Promozione. Nulla ha potuto la sua dirigenza stanca e demotivata, ma soprattutto scopertasi sprovvista di argomenti forti. E nulla ha potuto l’ex patron Riccardi, sindaco della città. Nessuno ha risposto all’appello. Nessuno è venuto incontro al pallone, ricaricando il bancomat societario. E nessuno si è sorpreso più tanto, in fondo. Nemmeno la gente che tifa: che ha mugugnato, sommessamente. E che, prima di altri, aveva abbandonato la nave al suo mare agitato. Disertando gli spalti: con meno di cento spettatori per domenica, quando va bene, il fallimento è un destino abbastanza normale.
domenica 11 luglio 2010
Le scelte, la simpatia, il senso
La scelta ha un senso. E rientra in quella serie di operazioni nate per catturare simpatia. La simpatia della piazza, innanzi tutto. E che, per questo, vanno salutate come meritano: con rispetto. La scelta è il cambio di denominazione sociale: da Taranto Sport ad A.S. Taranto. Ovvero, l’antico che sostituisce il nuovo. La tradizione che soppianta le esigenze della contemporaneità e le disavventure di un vecchio fallimento. Chiaro: il vecchio timbro non presuppone sconvolgimenti storici, dal punto di vista squisitamente pratico. Ma certe idee incontrano la soddisfazione della gente. Cioè dei clienti dell’universo calcio. Altrettanto evidente, poi, che le opinioni della tifoseria continueranno a ruotare attorno ai fatti. E ai risultati. Ecco, i risultati. Il primo, in riva ai due Mari, è già arrivato. Anche se se ne saranno accorti in pochi. Il Taranto è iscritto al prossimo campionato: non è poco, di questi tempi. Basta guardarsi attorno, per capire: e chiedere in giro. A Foggia, Manfredonia, Gallipoli e Monopoli, giusto per rimanere dentro i confini regionali. E, di questo, va dato atto alla presidenza D’Addario. Che, intanto, sembra aver capito gli errori di mesi addietro. Inaugurando, così, un nuovo capitolo. Meno spazio a contratti lunghi e lunghissimi, minore attrazione per i cognomi famosi e più fiducia verso chi non possiede pedigrée, ma ha fame. La campagna di rafforzamento (la prima parte, almeno: quella degli scorsi giorni) ha portato sullo Jonio giocatori forse anche sconosciuti a tanti, ma presumibilmente abbastanza motivati. La strada, questa strada - al di là dei risultati che poi appalteranno le opinioni - ci sembra corretta. E pure lei rientra in quella serie di operazioni nate per catturare simpatia. Anche se, dopo un primo e fugace sguardo, non sembrerebbe. Ma, appunto, sarebbe sufficiente guardarsi attorno, per comprendere. L’augurio è che la città che tifa sappia cogliere il senso. Eppure, capire non è troppo difficile. Basta volerlo.
martedì 6 luglio 2010
Gallipoli, ritorno al passato
Tutto azzerato. Bastano pochi mesi per cancellare anni impetuosi. Il Gallipoli retrocesso e fallito torna da dove era arrivato. Nella migliore delle ipotesi. Riparte dall’Eccellenza: o, almeno, così sembra. O, male che vada, dalla Promozione. Da quei quartieri sommersi nei quali ha navigato un paio di decenni lunghi e bui, prima della scommessa (vinta) da Barba. E’ un ritorno al passato. A quel limbo in cui il calcio di quest’angolo di Jonio potrà rintanarsi pensando al sapore dolce dei ricordi e del professionismo perso troppo in fretta, universo esagerato per le potenzialità effettive della città. Che, adesso, prova a riavvicinarsi al pallone. Faticosamente. L’augurio è che, ora, la storia recente non obblighi (o non spinga) la società che verrà a recuperare il tempo perduto con la leggerezza e la foga cieca che portano inesorabilmente al fallimento degli obiettivi. E la tifoseria a riscaldarsi alla prime difficoltà. Quel che è andato, è andato. E il blasone, ormai, non conta più tanto. Velocizzare i tempi di risalita senza un progetto dotato di fondamenta non servirà. Anzi, prima o poi il conto da pagare diventerà troppo oneroso. Riorganizzarsi con lucidità e saldezza, invece, converrà di più. E’ questa l’unica strada percorribile. Anche se largamente impopolare.
venerdì 2 luglio 2010
Monopoli, morte improvvisa
Sulla storia del Monopoli cala la saracinesca. Per la seconda volta. Non decide il Palazzo, però. La società sceglie l’eutanasia. Poche possibilità finanziarie, spiega la famiglia Laudisa: il problema, tuttavia, è che la decisione (e l’annesso comunicato ufficiale) della società arriva a ridosso della chiusura dei termini di iscrizione. Quando, cioè, non esiste margine alcuno per tamponare, rimediare. O, almeno, adoperarsi. E pensare un’eventuale soluzione. La morte del Monopoli, diciamolo tranquillamente, si abbatte sulla città e sulla tifoseria improvvisamente. Come un uragano inatteso. Vero, già in passato i Ladisa avevano allertato l’ambiente delle difficoltà sparse sul selciato. Ma senza mai entrare per davvero nello specifico. Senza, comunque, stabilire i tempi della gestione della crisi. Reale, ma sotterranea. Il calcio (quello professionistico, almeno) scompare: e l’impressione è che il club non abbia governato con saggezza il momento storico. Gli stessi tesserati (il diesse Manzari, ad esempio) non nascondono la sorpresa, che vanifica anche i primi approcci: con il tecnico che avrebbe dovuto sostituire Chiricallo e con qualche giocatore. Il gioco degli equivoci deflagra nella peggiore delle alternative. Diventando una sentenza senza appello: che profuma tanto di vendetta: nei confronti della piazza, dell’imprenditoria locale e della politica cittadina. Anzi, di vendetta pilotata. Che la Monopoli calcistica dovrà metabolizzare. Perché, da quelle parti, all’epilogo più amaro non ci crede ancora nessuno.
martedì 15 giugno 2010
Trani e la D ritrovata
La promozione del Trani addolcisce il sapore aspro di troppe retrocessioni dalla serie D alla prima serie regionale e ripara in parte il danno di immagine che il pallone pugliese ha arrecato a se stesso. Confermando, oltre tutto, la competitività delle formazioni di Eccellenza di casa nostra sul palcoscenico nazionale. Gli spareggi tra le seconde classificate di tutta Italia, ancora una volta, premiano il movimento dilettantistico di questa terra: i siciliani del Noto si piegano ai tempi supplementari (tre a uno), ma la squadra affidata l’estate scorsa a Giacomo Pettinicchio (terza promozione in quinta serie, per lui: era già successo con Massafra e Grottaglie) certifica il diritto a scalare la categoria in virtù di un calcio più maturo, più consapevole. E, in sostanza, più convincente. Qualche anno dopo, Trani ritrova la D, collocazione più adatta alla sua storia sportiva e al proprio blasone. La serie D, va detto, costata investimenti corposi. Ai quali, solitamente, patron Flora non si sottrae (è accaduto pure a Barletta e ad Acquaviva, non dimentichiamolo). Fino ad un certo punto, però: perché, adesso, il presidente chiede (pretende) aiuti. Meglio ancora, la condivisione delle forze imprenditoriali al progetto. La città, cioè, è chiamata ad nuovo esame di potenzialità. Altre volte è andata male, malissimo: l’inferno dell’Eccellenza (e, prima ancora, della Promozione) non si è acceso per caso. E, ad essere sinceri, anche questa volta è lecito cominciare a preoccuparsi. Anche perché siamo già a metà giugno e la palla ricomincerà a rotolare tra poco. E perché conosciamo Flora: uno che mantiene ciò che promette. Nel bene e nel male. Riteniamo, anzi, che questi giorni possano diventare già decisivi, nell’economia dell’intera questione. Trani riuscirà a farsi scippare nuovamente un calcio migliore?
venerdì 11 giugno 2010
Casarano, un Toma nel motore
Il Casarano che verrà è nelle idee e nell’entusiasmo di Antonio Toma, tecnico che si porta addosso il marchio di offensivista estremo, ma che la letteratura popolare – in realtà - ha saputo pubblicizzare più di qualsiasi modulo. Il nuovo nocchiero torna nel suo Salento, interrompendo l’eperienza nel calcio dei grandi vissuta al fianco di Antonio Conte (Bari, Atalanta) e sistemandosi su una delle panchine più ambite della serie D. E in una delle poche società dove è possibile progettare. E godere della certezza di riscuotere gli stipendi puntualmente. Bianchetti, il trainer della promozione dall’Eccellenza e del terzo posto maturato a maggio, sconta il rapporto ormai logoro con la tifoseria e l’ingresso difettoso nell’ultimo campionato. E saluta. La Virtus gira pagina. Ma senza dirottare gli obiettivi. Anzi. Ritoccando, però, il maquillage. Nuovo trainer, allora. E anche nuovo operatore di mercato. Via Elia (collaborerà con la Fiorentina dell’amico Corvino), ecco Mimmo Nocente da Francavilla Fontana, ragazzo che ama apparire poco e lavora bene. Ovviamente, poco apprezzato in patria (malgrado i risultati ottenuti recentemente) e, proprio per questo, assai motivato. Anche perché l’esperienza di Casarano è, per lui, la prima vera occasione da cogliere, dopo anni di budget limitati e difficioltà oggettive (a Ferrandina, Manduria, Taurisano). La squadra, invece, non sarà smantellata. Solo migliorata, con cautela. Come ci auguravamo recentemente su queste colonne e come il nuovo diesse si affretta a sottolineare. Ci incuriosisce già, la prossima versione di una formazione condannata a vincere. E affidata, dicevamo, alla mentalità vincente del suo nuovo coach. Che, tuttavia, non possiede trascorsi specifici nella categoria. Toma, anche per questo motivo, andrà assistito, tutelato. E consigliato. Quest’anno non si può sbagliare. Gestendo la situazione con l’autorevolezza dei più forti. E, contemporaneamente, con umiltà.
mercoledì 9 giugno 2010
Bitonto come Fasano e Francavilla
Adesso è proprio finita. Ad un passo dalla salvezza. Cade anche il Bitonto, trascinato in Eccellenza dal doppio spareggio con il Pisticci e dalla propria debolezza strutturale e psicologica: puntualmente accusata nei momenti fondamentali dell’intera stagione. Il pari in Lucania del match di andata non serve: in casa, al ritorno, la squadra di Pizzulli frana. Chiudendo nel peggiore di modi un torneo affaticato e innervato da vicissitudini vincolanti. Che si chiamano inadempienza economica del club, scioperi rientrati, ammutinamento della squadra dagli allenamenti, organico risicato, nervosismo diffuso, ambiente irretito e lunga squalifica del campo. Eppure, ai playoff il Bitonto guardava con fiducia, ottimismo. Giustificato dalla migliore posizione di classifica ottenuta nella regular season e dall’impressione di possedere, in fondo, un telaio più affidabile di quello avversario. Sbagliato. Come sbagliato è l’intero percorso di una formazione che non ha mai saputo aggrapparsi alle virtù del combattimento, che poi sembravano le qualità precipue della truppa. Attorno alle quali, va detto, era stato costruita la speranza della permanenza. Nel campionato passato ed anche in questo. La retrocessione è dolorosa: e non solo per il Bitonto, ma per l’intero movimento calcistico regionale. In serie D, per il pallone di queste latitudini, il bilancio è apertamente fallimentare. Tre retrocessioni su quattro (Fasano, Francavilla e, appunto, Bitonto) significano, oltre tutto, che l'antico contingente della quinta serie si è quasi dimezzato. Resistono solo il Casarano, il Grottaglie e l’Ostuni (che potrebbe, tuttavia, emigrare a Martina, come suggeriscono le cronache degli ultimi tempi), ai quali - però - vanno ad aggiungersi il neopromosso Nardò e il neoretrocesso Noicattaro. In attesa, però, che il Trani attraversi indenne l’ultimo capitolo degli spareggi nazionali di Eccellenza (domenica prossima sapremo). Non è comunque un bello spot, per la Puglia. Proprio no. Anche se, paradossalmente, ora potrebbero aprirsi scenari nuovi e più gratificanti. Cinque (o sei) club pugliesi in D, invece di otto (o nove), potrebbero cioè rilanciare l’antica idea della ristrutturazione della geografia interregionale. Che dirotterebbe i club di casa nostra nel raggruppamento siculocalabrese, molto meno aspro dell’ormai storico girone appulocampano. I numeri per lavorarci su ci sarebbero. La volontà delle società pure: e non da oggi. Non rimane, allora, che spingere: politicamente. Muovendosi immediatamente.
sabato 5 giugno 2010
Barletta, con orgoglio immutato
Troppo più attrezzato, il Catanzaro. Indubbiamente più dotato. Né troppo scalfito dalla difficile situazione societaria in cui versa. Il confronto, oggettivamente, reggeva sino ad un certo punto: il Barletta scende dal treno dei playoff, senza recriminare. Anzi, con immutato orgoglio. Il doppio insuccesso nella lotteria di fine stagione non cancella la soddisfazione di fondo e neppure il dato di partenza. La squadra di Sciannimanico, guadagnando la fase finale, ha cioè già dignificato le proprie reali possibilità. L’esito dei playoff, ripetiamolo pure, non potevano (e non dovevano) costituire il metro di giudizio di una stagione condotta al di là dell’obiettivo dichiarato (la salvezza con agio,ovvero quello più credibile e sensato). Punto e a capo, allora. Verso orizzonti nuovi. E nuove argomentazioni. Due su tutte: il rapporto tra il club e Sciannimanico, tecnico amatissimo in città che sembra aver incassato l’interessamento altrui (non sarebbe male puntare sul concetto di continuità: la gente, oltre tutto, approverebbe e il dettaglio non guasta) e la questione-stadio. Che, per inciso, sembra aver monopolizzato gran parte degli interessi popolari. E che, sembra di capire, indirizzerà le scelte del presidente Sfrecola e del gruppo di comando della società. Ovviamente, la tematica non è pretestuosa. Ma, al contrario, assolutamente seria. Difficile pensare, però, ad una risoluzione del problema in tempi brevi. I lavori che necessitano al Puttilli sono corposi ed onerosi: e sappiamo come funziona, a queste latitudini. Il campionato, il prossimo campionato, non può aspettare, invece. E occorre che la società sappia come affronatrlo. E con chi. Il progetto non è indissolubile dal nome del tecnico che ha condotto il Barletta in questo torneo, ma la riconferma di Scinnimanico potrebbe conferirgli sostanza. Assicurargli un impulso, ecco. Chiarire il primo punto è già un’ottima idea. Anche per vedere l’effetto che fa.
venerdì 4 giugno 2010
Brindisi, due pareggi non bastano
Un palo all’andata. E una grande opportunità per Galetti, al ritorno. Il Brindisi fallisce le (poche) opportunità che la doppia sfida playoff gli serba e si piega alla Cisco di Roma, una delle due finaliste (l’altra è il Catanzaro) che si contenderanno l’approdo in terza serie. Due zero a zero non fanno risultato: e, per la squadra di Silva, la corsa si interrompe qui. Niente da dire, comunque: Moscelli e soci si giocano la qualificazione sino in fondo. E passa la squadra complessivamente più quadrata dell’intero torneo. Non serve amareggiarsi e neppure irritarsi: di questo Brindisi, alla fine, è giusto essere contenti. Nonostante certe imperfezioni che un campionato come quello di C2 ammette e perdona. E’ giusto essere contenti e, soprattutto, fieri. In attesa di capire quello che sarà. Tutto, ovviamente, dipende dai fratelli Barretta. E dalle loro decisioni. Abbondonare oppure no: questo è il problema. Il problema di una città che non sembra disporre di un ricambio applicato al pallone. E, quindi, di prospettive. Come insegna il passato: che torna a far paura. Augurarsi, intanto, che il vertice del club non confermi l’idea di svincolarsi è assolutamente condivisibile. E sperare che il risultato sportivo di questa stagione contribuisca a rasserenare i due presidenti è pienamente legittimo. Ma sarà anche il momento, in riva all’Adriatico, di cominciare a porsi delle domande. E a dotarsi di qualche risposta. Da sùbito: l’estate è breve e il calcio giocato busserà già a fine luglio. Il tempo è prezioso. Quest’anno, più che mai. Perché il pallone semisommerso della Lega Pro sta affondando. Nei debiti, nell’insolvenza e nella precarietà. E l’impressione è che, nel Palazzo, manchi la volontà di proteggere e salvare chi soffre.
giovedì 3 giugno 2010
Andria, è ancora C1
Si salva anche l’Andria. Il suo percorso nei playout, però, è meno avventuroso di quello del Foggia. La permanenza arriva naturalmente, quasi con agio. Pareggio a Giulianova, vittoria in casa. Basta il sigillo di Sy. Anzi, il sigillo è superfluo, perché un pareggio sarebbe già abbondante. Il responso è esatto. E rende giustizia alla realtà del campionato: quest’Andria, in fondo, merita la terza serie. Malgrado un torneo controverso. Dove cali di concentrazione e picchi di tensione hanno compromesso il traguardo in prima battuta. Ma dove, anche, il lavoro di Papagni sembra infine aver vinto le difficoltà, i dubbi, le ansie. Il tecnico di Bisceglie scrive una nuova pagina felice del suo diario personale. Fissando le basi per un nuovo progetto, quello che partirà in estate. Del resto, il coach è uno dei pochi (no, dei pochissimi) che, ad Andria, ha sempre raggiunto gli obiettivi. Nella prima esperienza e pure nella seconda. E, per questo, gode del massimo rispetto e della completa fiducia dell’ambiente. Tanto da poter chiedere, nell’immediato futuro, ampio margine di manovra. La società, peraltro, sembra sufficientemente forte. E sussistono tutti i dettagli per poter programmare seriamente. E per non soffrire più, innanzi tutto.
mercoledì 2 giugno 2010
Foggia, salvezza da lacrime e sangue
La salvezza del Foggia si chiama Caraccio. L’artigliere argentino capitalizza gli ultimi istanti di gara e trova il varco giusto. Uno a due, Foggia salvo. I playout condannano il Pescina, proprio quando la formazione marsicana sembra aver miracolosamente recuperato lo svantaggio accumulato nel match di andata. E sì: la gente di Ugolotti, nel momento decisivo, si complica masochisticamente l’esistenza, andando sotto di due lunghezze. Confermando il limite di sempre: quello che non gli permette di gestire le situazioni, anche le più agevoli. Proprio come nel passato recente (ricordate la sfida con la Spal?) e un po’ più remoto. Questa volta, certo, l’epilogo è felice: ma la paura (immensa) aleggia ancora nell’aria. Sinceramente, questo Foggia non c i lasciava tranquilli, sino a sabato. E l’ultimo capitolo della stagione non ci sorprende. Come non sorprende la tumultuosa protesta della tifoseria, dopo il novantesimo. E, soprattutto, prima: a partita in corso. Quando il calcio deve fermarsi, di fronte all’invasione solitaria. Che, poi, diventa forse l’ingrediente fondamentale per appaltare la salvezza. Proprio lì, probabilmente, il Foggia si scuote. Proprio lì, probabilmente, il Foggia capisce. Proprio lì, probabilmente, il Foggia si ritrova. Assaltando l’ultima porzione di match. La spinta, verrebbe da dire, arriva direttamente dagli spalti. Concretamente. In un’atmosfera da lacrime e sangue. Senza della quale, magari, la formazione di Ugolotti sarebbe in C2, oggi. A sollevare processi cruenti. E pienamente legittimi.
martedì 1 giugno 2010
Noicattaro, fine del sogno. E, forse, del viaggio
Il verdetto, in fondo, è già scritto. O, comunque, già sostanzialmente abbozzato, ancora prima di giocare. Già scolpito dai novanta minuti di Vibo, prima manche di un doppio confronto che, però, non perde interesse, nè si svuota dei contenuti emozionali. Alla fine di gara-due, la Vibonese conserva la quarta serie e il Noicattaro retrocede. La formazione di Sisto e Bitetto si trascina il pesante bagaglio del rovescio ingombrante (zero a tre) sofferto la settimana precedente e prova a lenire le sofferenze, senza però addizionare la forma e la sostanza sufficienti per completare la rimonta: Di contro, l’undici di Galfano governa il vantaggio acquisito in casa e, soprattutto, l’ardore dei pugliesi: soffrendo anche parecchio, ma riuscendo a far scorrere con danni limitati l’ultima ora e mezza della stagione. I nojani, però, ci credono. Sin dall’inizio. Credono nellla lotteria dei playout e partono con convinzione, generosità, slancio. Ma senza arrivare al traguardo: troppo arduo da conquistare. Zotti, dagli undici metri, scrive il vantaggio dopo appena sei minuti. La Vibonese è schiacciata, il direttore di gara non ravvede un secondo penalty, la squadra continua a giostrare e a creare, sfiorando il raddoppio. Prima che arrivi l’intervallo, i calabresi restano anche in dieci: servono altri due gol, però la partita sembra sorridere al Noicattaro. Ma il sacro furore dei padroni di casa, nella ripresa, si stempera e la Vibonese riconquista metri e serenità. Proponendosi, magari, di addormentare la vitalità altrui, sfruttando un pressing meglio armato. Gli spazi si riducono. L’intensità del gioco cala. Il Noicattaro, ora, è stanco, molto meno ispirato, poco lucido. La volontà non basta e difetta pure lo spunto isolato. L’avversario, infine, sceglie di rintanarsi e di resistere sino alla fine: e la manovra si infrange sistematicamente sul muro eretto dagli uomini di Galfano. Finisce male, con il Noicattaro in nove e il malumore sugli spalti. La città perde il professionismo e, forse, pure la sua espressione calcistica. Tra i dilettanti, sarà più facile espatriare. Il destino sembra compiuto.
lunedì 31 maggio 2010
E, infine, la promozione
Arriva il dato aritmetico che mancava. Proprio in fondo al viale, nell’ultima occasione utile. Il Lecce raccoglie un punto dalla sfida con il Sassuolo e ritrova la serie A, tre settimane più tardi di quanto avesse immaginato e sperato. Prolungando l’attesa, come in un thriller ormai inimmaginabile. Ma rispettando, nella sostanza, i pronostici spesi a giugno: malgrado in troppi affermino il contrario. Perché la squadra di De Canio s’incamminava verso il campionato con il conforto di un organico anche abbastanza giovane, ma importante e competitivo. Come quello di Brescia ed Empoli, tanto per capirci. Teoricamente, un solo gradino sotto quello allestito dal Torino o dalla Reggina, cioè le delusioni più evidenti di questa serie B. Ecco, sorprende vedere il Lecce davanti a tutti, questo sì. Cioè promosso in prima battuta. Ma il verdetto è corretto, senza dubbio alcuno. Perché la squadra sa reagire alle insidie della parte iniziale del torneo, rimediando una quadratura tattica e imparando a giocare con praticità. Diventando, da quel momento, l’espressione più continua, per rendimento e risultati, del girone. Il compito, è vero, diventa più agevole perché manca un avversario che sappia accelerare con convinzione: la continuità, cioè, abita in Salento e non altrove. Tanto che Giacomazzi e compagni possono permettersi di condividere qualche pareggio in più e di felicitarsi con il minimo garantito. Più di una volta. Auguri, allora: alla società, che spende il giusto e ricava molto. Al tecnico, che conduce la squadra con fermezza e lucidità, gestendo con efficacia e personalità le ore più complicate. Ai protagonisti del campo: molti dei quali affamati e pronti ad integrarsi alla frangia più esperta del contingente. E alla tifoseria: più riflessiva di altre occasioni. O solo più paziente. Forse non eccessivamente calorosa (la serie A sembra diventata un’abitudine e, forse, la B non riscalda più), ma – proprio per questo – indisponibile alla pressione fitta. E, ovviamente, auguri anche alla città: che ritrova il palcoscenico di maggior prestigio. Palcoscenico che, in provincia - e soprattutto di questi tempi - resta un lusso. Da gestire, giorno per giorno. E da guadagnarsi: con una politica attenta. Che sappia guardare anche al vivaio, un po’ trascurato negli ultimi anni. A proposito. è arrivato il momento di cominciare a ripensarci su. Compiutamente.
mercoledì 26 maggio 2010
Foggia, possiamo fidarci?
Onestamente, non ci aspettavamo una sessione dei playout così beneaugurante, per il Foggia. Che, in gara uno, aggredisce il Pescina, lasciando Avezzano con una dote importante: un due a uno da difendere allo Zaccheria, domenica prossima. Sperando, però, che la truppa di Ugolotti affronti l’incontro che verrà (e che vale la stagione) con la mentalità di chi deve far fruttare il primo parziale, piuttosto che di salvaguardarlo con incerta sufficienza. E sì: perché la situazione che si è creata comincia ad assomigliare fortemente a quella vissuta recentemente, all’ultimo capitolo della regular season. La prossima gara, cioè, possiede molti tratti somatici comuni a quella persa (e senza reagire) con la Spal. Ci viene facile intuire, quindi, che il trainer stia già lavorando alacremente sul profilo psicologico della squadra, prima di ogni cosa. Perché serve un Foggia convinto sino in fondo, astuto, meno presuntuoso. Vorremmo sbilanciarci, anche nel pronostico: ma ci soccorre un velo di prudente saggezza. Di questo Foggia possiamo finalmente fidarci?
lunedì 24 maggio 2010
Brindisi, quel pari che penalizza
Playoff faticosi. E il Brindisi digrigna i denti. Gara uno della semifinale è test di difficoltà duffuse: perchè l’avversario (la Cisco Roma) è formazione ben sistemata sul campo, esperta e ordinata dietro, surrogata tecnicamente da buone individualità e scafata quanto basta per arginare la pressione altrui con pressing e sacrificio e per gestire la ripresa, dove soffre abbastanza poco. La gente di Silva produce tre occasioni interessanti e coglie anche un palo, con Carcione: ma il suo match è un po’ imballato e la manovra si incarta spesso. In mezzo al campo, Fiore tramonta sùbito, Piccinni svolge il compitino e Battisti può offrire geometria, ma non idee. Mortelliti, del resto, è in panca, debilitato. E, davanti, Moscelli non trova né lo spazio, né gli spunti. Albadoro, preferito a Da Silva, capisce un po’ tardi che, per catturare il pallone, deve ripiegare e cercare lo scambio. E non assicura spessore per tutto il match. Lo zero a zero, alla fine, penalizza il Brindisi vistosamente. Perché, nella manche di ritorno, diventerà obbligatorio vincere, per proseguire la corsa. Operazione, di per sè, non impensabile, ma oggettivamente ardua: soprattutto se Trinchera e compagni non guadagneranno agilità, densità, aggressività e lucidità. Qualità che il Brindisi, quando serve davvero, dimentica spesso. Evidentemente, non per caso.
venerdì 21 maggio 2010
Il Taranto si guarda indietro e trova il futuro
Non andava bene, Capuano. Più che al presidente, a quanti gli sono attorno. Ma anche alla piazza, sostanzialmente. E non andavano bene neppure Roselli, Moriero e un’altra decina di nomi circolati dalla fine del campionato (anzi, anche prima) a ieri. La panchina del Taranto che verrà, ormai è deciso, va invece a Brucato, presentato ufficialmente in conferenza stampa con beneaugurante tempismo. Meglio: la panchina torna a Brucato, il secondo tecnico della stagione appena finita e defenestrato a gennaio con freddezza e un sms: non spedito, peraltro, all’interessato. Ma il calcio è un caleidoscopio ineusaribile di situazioni buffe. E, spesso, si guarda avanti, come se nulla fosse accaduto. Problema risolto, allora: con una decisione che, almeno, svilisce il vagare un po’ cieco alla ricerca della persona adatta. Nel mare delle offerte più disparate: che andavano dal difensivista camuffato al progressista dichiarato. Quasi a voler sottolineare l’indecisione di fondo. Ma tant’è. Capitolo chiuso, dunque. E si rassegni chi non gradiva e quanti continuano a non gradire il tecnico di Caltanissetta: cioè buona parte della tifoseria e anche degli operatori dell’informazione. Anche se poi diventa difficile comprendere certe parole di D’Addario («Capuano no, perché è inviso all’ambiente»): come se Brucato godessse del favore popolare. O di buona stampa. O di grande charme: scalfito da troppe situazioni emerse nel corso del torneo e, soprattutto, da quell’esonero insolito. Si riparte con Brucato, quindi (e con ambizioni da verificare prossimamente): un modo come un altro per ritrattare e ammettere un errore. Oppure una scelta di convenienza: non economica, come assicura il numero uno del club (il coach era tuttora vincolato dal vecchio contratto). Ma di convenienza empatica: perché Brucato, sin qui, si è rivelato l’allenatore più disposto a dialogare con la proprietà. Basterà? E per quanto?
martedì 18 maggio 2010
Noicattaro, cambio di panca al fotofinish
Tutto all’improvviso. Oppure no, se si ascoltano i commenti di chi vive strettamente la quotidianità del Noicattaro. Che si avvicina alla doppia sfida dei playout (domenica prossima e qulla seguente, di fronte alla Vibonese) con un cambio di panchina da metabolizzare in fretta. Trillini, a regular season appena consumata, è stato accompagnato all’uscio. Piegato da un ben radicato conflitto concettuale con la proprietà e, chissà, anche da un finale di campionato non proprio brillante: al di là dei numeri pubblicizzati dal trainer marchigiano, tra un saluto e l’altro. E, infine, surrogato da una soluzione interna (Angelo Sisto, coach della Berretti, e la vecchia conoscenza Vito Bitetto, uomo di fiducia del presidente Tatò). La scelta del club piove quasi sui titoli di coda, ma prima che il torneo di C2 sveli il nome del colpevole. Esattamente nel momento fondamentale della pellicola: dove non si può sbagliare. Misura improcastinabile, certifica Tatò. Eppure pericolosa: non solo per una questione psicologica, ma anche per motivazioni squisitamente tattiche. Anche per questo, Bitetto e Sisto non potranno modificare l’ultimo Noicattaro della stagione. Rischiando, cioè, di confondere ulteriormente una squadra che dovrà applicarsi meglio di quanto abbia fatto sino ad oggi. E che, sin qui, ha viaggiato su equilibri instabili. Detto tra noi, il capitolo playout si complica sensibilmente, proprio al fotofinish. E questa storia non mancherà di sollevare quesiti e polemiche, se il verdetto dovesse rivelarsi nemico. Sempre che il Noicattaro importi ancora alla città, alla tifoseria o a qualcuno. A qualcuno che si senta ancora legato all’espressione calcistica di un territorio: ancora per poco. Perché il tempo, questa volta, sembra davvero scaduto. E l’emigrazione è molto di più di una minaccia fastidiosa e puntuale.
lunedì 17 maggio 2010
Fine della corsa. Gallipoli, si scende
Fine della corsa. Il Gallipoli si ferma qui. E, speriamo, non per sempre. Intanto, a Reggio Calabria perde partita e serie B: ma, in coda a due mesi di scarsissimi risultati, il dato non meraviglia affatto. Due mesi, oltretutto, vissuti in un’emergenza finanziaria assoluta, dove si disintegrano facilmente anche le motivazioni residue. La retrocessione chiude una storia forse irripetibile. Anzi, una favola, per scomodare un termine sin troppo abusato. Ma assolutamente fedele alla verità. Retrocessione che brucia: soprattutto perché, a tre quarti del cammino, la squadra allora gestita da Giannini sembrava virtualmente salva. E, comunque, viva: malgrado i problemi. Che, peraltro, il passaggio del tempo ha abbruttito, ampliandoli. Adesso, si scende. Anche se, nel vagone, non è rimasto più nessuno. Mentre il fallimento del club è una realtà con cui misurarsi. Realtà che potrà condurre, nel migliore dei casi, in serie D: evidentemente, l’humus ideale della dimensione calcistica di quest’angolo di Salento. Dispiace dirlo, ma è così: parlano i fatti. E la dannosa sequenza di situazioni grottesche succedutesi negli ultimi dodici mesi. Fine della corsa. E, nell’aria, solo apatia, rassegnazione e appena un po’ di rabbia. E l’impressione inquietante di aver difeso male la serie B. Concettualmente e, purtroppo, quasi inconsapevolmente. Nelle strade della città, ancora prima che sul campo.
sabato 15 maggio 2010
Casarano, un terzo posto per ripartire
Troppo ampio il divario da colmare. Troppo largo il disavanzo da combattere. Un girone intero, quello di ritorno, non sempre è sufficiente. Soprattutto se le candidate alla promozione sono il Neapolis e il Pianura, formazioni allestite per vincere. Il Casarano non completa la rincorsa e si ferma al terzo posto: come più o meno previsto già a marzo, peraltro. Anche se la speranza di ottenere qualcosa di più e di meglio, ad un certo punto, si era persino rafforzata. La partenza affaticata è il vizio originale che frena la formazione di Bianchetti e che, infine, la limita. Tutto chiaro, tutto limpido. Non c’è molto da aggiungere: se non che va dato atto alla squadra di aver corretto in corsa il proprio passo, di aver lavorato per conquistare compattezza e funzionalità a campionato già avviato e di aver limato certe problematiche, seppur in ritardo. Risvegliandosi a torneo già abbastanza compromesso, in coincidenza con il recupero (fisico e, talvolta, mentale) di uomini importanti. Al di là del fallimento dell’obiettivo più o meno dichiarato (la famiglia De Masi cercava la seconda promozione di fila, inutile negarlo), conforta però parecchio capire che il progetto di recupero dell’identità perduta e di categorie più prestigiose non si corrompe alle prime difficoltà incontrate sul cammino. Il Casarano ha in mente il ritorno tra i professionisti e dissuaderlo non sarà agevole. Attraverso i playoff (ipotesi, come ogni anno, remota: e, questa volta, ancora di più), oppure nella stagione che si aprirà a luglio. L’organico, del resto, va solo integrato, sostenuto. E non occorre sventrarlo: di fronte alla scarsa qualità diffusa del campionato di serie D (e sarà smpre così, con cinque under obbligatori), è la solidità dell’impianto a pagare. Con un pizzico di fantasia, ovviamente.
venerdì 14 maggio 2010
Taranto, finale morbido. Guardando avanti
Due vittorie (con l’Andria, in casa, e quella superflua di Cosenza) negli ultimi centottanta minuti della regular season risvegliano il Taranto e trasportano la squadra di Passiatore a ridosso delle più titolate. Le statistiche, anzi, sembrano nascondere un mese abbondante di tensioni e timori. E, soprattutto, la minaccia dei playout sofferta alla vigilia del derby. Cose del calcio. Materia dove i conti si rischiano solo alla fine del percorso. Ma dove, però, i sapori degli ingredienti utilizzati si sentono sempre. La prima esperienza calcistica della famiglia D’Addario si stempera nel sollievo e ammara nella tranquillità, dopo essere passata attraverso un vortice di polemiche, stranezze e confusioni dei ruoli e una maldestra gestione delle situazioni. Che non nasce esclusivamente dall’ inesperienza, ma anche da una certa supponenza: puntualmente punita. Cioè, pagata. E si addolcisce anche la prima vera esperienza in panchina di Passiatore, uscito dal tunnel con sette punti in sette partite. E pronto a ricominciare: ma altrove. Con la consapevolezza di aver raccolto un’opportunità grande, senza approfittarne. Tutto il resto, è passato (con le sue crepe e le sue situazioni interpersonali da ricomporre: tra il presidente e parte della tifoseria, tra il patron e la stampa, tra D’Addario e l’opinione pubblica) e futuro (da decodificare). Il futuro, già: innanzi tutto, la proprietà non cederà. L’allarme e la minaccia di disimpegnarsi sembrano definitivamente svanite. E, magari, raddoppierà: cioè, riteneterà l’assalto alla B, che è il punto nodale che afflige la città da poco meno di vent’anni. Ma anche l’obiettivo di partenza del vertice del club: che, adesso, da questo punto di vista professa maggior riservatezza (le scottature, talvolta, servono). Fondamentale, come sempre, sarà tuttavia la strategia societaria. Che dovrà necessariamente edificarsi su criteri diversi: più puramente calcistici, cioè. E svincolati dalle logiche aziendali, che con il pallone possiedono pochi punti di contatto. L’esperienza dovrebbe aver formato, insegnato: lo auspichiamo. Anche in prospettiva immediata: quando occorrerà affidarsi ad una nuova conduzione tecnica della squadra. Sulla quale, in verità, circolano molte voci. Troppe voci. Che lasciano ipotizzare, all’interno dello staff che ruota attorno a D’Addario, posizioni distanti tra loro. E, dunque, ipoteticamente destabilizzanti. Quello dell’allenatore, del resto, non è affatto un capitolo secondario. E non potrà non influire nelle scelte di mercato e, di conseguenza, in quelle gestionali. Quindi, nell’economia della stagione che arriverà. Diventando, così, il primo passo verso la normalizzazione della questione calcistica sui due Mari. Ovvero, la prima grande conquista: purchè, è chiaro, cambino le prospettive, i metodi e le convinzioni.
giovedì 13 maggio 2010
La retrocessione amara del Francavilla
Ci sono squadre obbligate a dare tutto. A darsi per intero. A digrignare i denti, a scalpitare. E a sgomitare. A credere in se stesse e alla salvaguardia del proprio obiettivo proprio nel momento in cui transita l’occasione. Né prima, né dopo: ma in quel preciso periodo storico, in cui si incrociano le astuzie del calendario e si pianificano le vicende altrui. Ci sono squadre chiamate alla prova di maturità, ultima stazione per la permanenza. Che possono sovvertire le impressioni e i pronostici. E che possono pure mancare fatalmente, bruciando l’esame. Non cogliendo l’attimo. Arenandosi nella medesima inconsistenza di tanti mesi sprecati. Rimanendo un po’ in disparte, un po’ confuse, imbrigliate dall’ineluttabilità degli eventi: con quella strana consapevolezza di dover pagare il dazio, ancora prima del confine. Pronte al sacrificio: perché così sembra scritto. Una di queste squadre è il Francavilla. O, almeno, questa è la sensazione che ha offerto. La squadra di Ruisi (a proposito: la sua grinta, tradizionalemnete utile nelle infusioni di coraggio a sostegno del collettivo, sembra annacquata, all’improvviso. Non è un buon segnale e fa sospettare troppe cose) difetta l’approccio con le partite decisive. Svalutando anche le opportunità di scorta (nell’ultimo turno del torneo, domenica prossima, l’avversario diretto Pisticci riposa). E la retrocessione diretta, con novanta minuti di anticipo, copre due anni di serie D difesa con onore. Retrocessione particolarmente amara: perché, al contrario di altre realtà, il Francavilla ha potuto operare sul mercato. Più volte. Malgrado il programma di contenimento dei costi pubblicizzato in estate: operazione che, poi, ha costretto il presidente Distante a spendere più o meno quanto la stagione precedente. Chiusa, però, con una permanenza comoda. E particolarmente amara perché il Francavilla, nel corso del campionato, ha sciupato opzioni irripetibili: più per indolenza, che per incapacità (una partita per tutte, quella di Pisticci, che poi ha ufficializzato lo stato di crisi dal quale Paglialunga e soci non hanno più saputo uscire). Retrocessione amara, ma forse anche concordata col destino, inconsapevolmente: della quale si assume parte delle responsabilità Distante, con onestà intellettuale. Prima di lasciare il club, si dice. E dopo aver capito che, in fondo, la gestione tecnica di dodici mesi addietro, frettolosamente esautorata, non era così cattiva e così dispendiosa.
mercoledì 12 maggio 2010
Monopoli, ultimo chilometro con polemica
La notizia è che l’Igea, avversario di turno, gioca regolarmente. Dopo tre settimane di silenzio assoluto. Con la volontà e la dignità dei suoi giovani. Con l’orgoglio raccolto nel campo dolente del suo dramma sportivo. Con il pudore di quanti possono coprire poche falle, ma non l’emorragia. Per ribellarsi alla bruttura della radiazione. La partita del Monopoli, tuttavia, è una recita trascinata dalle esigenze di calendario e di regolamento. Non esiste il confronto, contro i ragazzini di una squadra, quella siciliana, già retrocessa. Non c’è confronto (finisce quattro a uno, risultato assolutamente ininfluente sulla classifica) e neppure un senso profondo. Ma, sugli spalti, prima che il campionato finisca, si agita molto malumore. La frangia più estremista della gente che tifa apostrofa robustamente il coach Chiricallo, macchiatosi del paccato di aver allestito, la settimana prima, una formazione di ripiego contro uno dei rivali di sempre, il Barletta. Sinceramente, la contestazione appare esagerata. E, comunque, ufficializza il divorzio tra il tecnico e il club. Che, si dice, avrebbe riallacciato i rapporti (interrotti bruscamente, non troppo tempo fa) con Pino Giusto. La novità un po’ sorprende, ma fa niente: nel pallone, è vietato meravigliarsi. Ma, dalla società, da qui in avanti sarà lecito attendersi - come gridava la curva – un progetto chiaro. Che, aggiungiamo noi, potrebbe finalmente pensare di appoggiarsi ad una conduzione tecnica duratura, capace di superare i quattro o cinque mesi entro i quali sono ormai tradizionalmente costretti a lavorare gli strateghi del Monopoli.
martedì 11 maggio 2010
Andria, un tempo solo non basta
Brutta storia, per il pallone di Puglia: due formazioni agli spareggi per non retrocedere nello stesso girone (Foggia ed Andria) è pessima pubblicità. La gente di Papagni rallenta nel momento decisivo: e, anche di fronte al Ravenna, nella gara che vale il campionato, si confonde a lungo, lasciando tutto il primo tempo all’avversario. Si risveglia un po’ dopo l’intervallo, ma il nervosismo corrode la sete di rincorsa. Anzi, lo zero a zero che premia i romagnoli e castiga Sy e compagni diventa più indigesto in ottica futura: perché, oggi, l’Andria è una squadra che rischia di dover continuare a pagare la sua tensione e anche una certa litigiosità, sul campo. Ai playout arriverà un organico ancora una volta scalfito dalle decisioni del giudice sportivo, elemento fondamentale che non depone sullo stato di salute psicofisica del gruppo e sulle sue capacità di gestire i momenti più delicati e le situazioni più complesse dal punto di vista emotivo. Onestamente, per quel che può servire, a questo punto della stagione, il Giulianova è – almeno teoricamente – l’avversario meno temibile del lotto dei pretendenti alla salvezza. Ma l’Andria deve finalmente cominciare a poter contare unicamente su se stesso. E a perseguire quello che non si è mai regalato, sin qui: un passo continuo. E un certo tremendismo. Che non va confuso con il nervosismo ottuso che naufraga tra cartellini gialli e rossi. Ma quello che serve ad arrampicarsi sui risultati. Che è mancato nel secondo tempo di Taranto e nel primo di domenica, di fronte al Ravenna. In due partite che, alla fine, hanno scritto la storia.
Iscriviti a:
Post (Atom)