lunedì 23 giugno 2014

Taranto, chi viene e chi va

All’improvviso, ma con prevista puntualità, la situazione societaria del Taranto si ingarbuglia, si intorpidisce. Ma, contemporaneamente, si evolve. Abbastanza velocemente, pure. La vecchia struttura societaria, quella che - in sostanza – ha traghettato il pallone dei due Mari dal momento dell’ammissione alla serie D sin qui, sarebbe stata disposta a perseguire il proprio progetto di consolidamento delle fondamenta del club, che passava attraverso due punti fondamentali: il ripianamento dei conti (mancano, si dice, duecentocinquantamila euro per saldare le vecchie pendenze) e l’alimentazione delle ambizioni. Per la quale, va aggiunto, avrebbe gradito nuovi contributi, nuove energie: quindi, ulteriori investitori. Parallelamente, peraltro, altri soggetti si sarebbero (anzi, si sono) avvicinati: da Cerruti, attuale patron dell’Agropoli, ai fratelli Campitiello. Nomi, questi, che hanno finito per ingolosire la piazza. Irruviditasi, così, nei confronti del presidente Nardoni e del suo vice (e socio forte) Petrelli: perché, forse, simboli di un passato prossimo senza risultati sportivi tangibili. O perché prudentemente lontani dall’idea di presentare la fidejussione che dovrebbe accompagnare l’ipotetica richiesta di ripescaggio in terza serie (niente affatto certa, per la cronaca). Di fatto, però, parte dell’ambiente jonico avrebbe ultimamente delegittimato e sfiduciato i due dirigenti. Che, un po’ offesi, si sono praticamente disimpegnati, in attesa di ulteriori novità. Accelerando il processo di rinnovamento. Ma, nel contempo, aprendo un’eventuale crisi societaria, se la trattativa con la famiglia Campitiello – oggi considerata molto avviata e destinata a soluzione felice - dovesse saltare, per un motivo o per un altro. Fermiamoci, tuttavia, alle certezze. E una certezza è questa: il maggior investitore del gruppo uscente, ovvero Petrelli, ha dribblato ogni problema presente e futuro e qualsiasi complicazione, cedendo (gratuitamente, giura) le sue quote alla Fondazione Taras. Scendendo, in questa maniera, dalla giostra delle possibilità. E trascinandosi emotivamente Nardoni. Il primo e il secondo, intanto, potranno non piacere (o non piacere più) alla Taranto che tifa: ci può stare. Però, sarà anche giusto ricordare che proprio Petrelli e Nardoni hanno saputo garantire il minimo indispensabile: cioè la dignità e la sopravvivenza del club. Che, poco più di un anno fa, non possedeva neppure la casa, ovvero un campionato a cui partecipare. Spingerli ad abdicare non è stato un gesto di grande riconoscenza, da parte di qualcuno (e la Fondazione Taras non c’entra, per essere chiari): e pure questo va sottolineato. Così come va sottolineato che, a queste condizioni, Petrelli e Nardoni lasciano con eleganza. Rimediando un figurone, prima che la questione si delinei del tutto. Ma, se qualcosa non dovesse funzionare, da qui alla prossima settimana, nessuno potrà permettersi di rinfacciare qualcosa a chi si, garbatamente, si è fatto da parte. Questo deve essere abbastanza chiaro.

giovedì 12 giugno 2014

Bari, il successo oltre l'eliminazione

La piazza è esuberante. Di fede, gente e colore. Il Bari attrae. Il Bari infervora gli animi. Il Bari lotta lontano da casa, a Crotone. E il maxischermo, di fronte alla Prefettura, dribbla la distanza. Dentro o fuori, in novanta minuti. O centoventi: dipende. Ma il collettivo di Alberti e Zavettieri sa inquadrare il match, carpirne l’essenza, scovare il momento giusto per schiodare lo zero a zero che lo condannerebbe. Tre gol (a zero) fuori casa raccontano il magic moment della squadra, promuovendola alla seconda fase dei playoff. E, per strada, la folla sente i traguardo, quello della A, infinitamente vicino. Ma, di fronte, adesso c’è il Latina. Doppia sfida: prima al San Nicola, poi lontano dall’erba amica. Il primo round si consuma in uno stadio ribollente: siamo vicini alle sessantamila presenze, per una gara di B. Qui non si scherza. Ma non scherzano neppure i pontini, sùbito pronti e in vantaggio per primi. Ma il cuore del Bari è grande. E la reazione di Sabelli e soci ribalta il punteggio, che solo l’ex Ristovski, poco prima del novantesimo, riesce a riequilibrare. A campi invertiti, ieri, il match del responso definitivo. Che sorride al Latina. Un altro due a due: e la corsa del Bari, imbattuto nei playoff, si interrompe alle porte della finalissima. La generosità della ripresa non basta. E non è sufficiente neppure il gol di Polenta, quello del vantaggio in dirittura d’arrivo. L’avversario si procura un penalty contestato e poi completa il sorpasso. Galano, tuttavia, ci crede ancora e pareggia: ma, ormai, è tardi. Tardi per sognare, ma non per esigere il rispetto della sua gente e per pretendere gli onori del caso. Manca il premo finale, ma l’impresa resta ugualmente. Salta la promozione, eppure lo spessore dell’obiettivo centrato è incancellabile. Con l’energia della freschezza e la forza della spavalderia, con molto orgoglio e parecchia dignità, questo Bari ottiene lo stesso un traguardo preziosissimo: quello di riavvicinare la città al calcio. Foraggiando motivazioni nuove, che verranno buone più avanti. Al di là del risultato del campo, questo è un successo. Il suo successo.  

domenica 8 giugno 2014

Lecce, sarà ancora C

Lecce e Frosinone, di nuovo di fronte. Questa volta, però, la sfida (doppia) è decisiva. Alla quale la gente di Lerda non arriva con la lucidità dei giorni migliori. Eppure, essere in fondo alla strada è un distintivo di merito, considerate le premesse. I ciociari, intanto, si prendono i favori del pronostico e si presentano davanti al traguardo più tonici. Meglio strutturati. La finale dei playoff è una storia che, tuttavia, la formazione salentina sembra poter scalare: passando a condurre il match di andata, in Puglia (finirà uno a uno) e pure quello di ritorno (i laziali si impongono tre a uno, conquistando la B). Alla distanza, cioè, il Frosinone si fa preferire: per la migliore gestione delle situazioni, per la preferibile condizione mentale e per un miglior approccio con le tensioni tipiche di un incontro così delicato. Il Lecce, invece, si perde troppo presto: sull’erba di via del Mare come al Matusa. Dove finisce il match in inferiorità numerica. E dove, dopo il novantesimo, si lascia tradire dalla rabbia e dalla frustrazione. Onestamente, l’avversario produce di meglio e di più. E, nell’arco delle due partite, legittima la propria superiorità. La botta, così, è ancora più dura. Soprattutto in prospettiva futura. Dunque: il Lecce fallisce la promozione per la seconda volta di seguito. Scoprendo quanto è arduo risalire. E quanto è scomodo combattere con il dovere di imporsi. Aprendo, in un certo senso, una crisi tecnica e societaria. Mancati introiti a parte, la famiglia Tesoro dovrà, per esempio,  cominciare a mettere in conto il peso di qualche vecchia critica sopita che, vedrete, affiorerà nuovamente. E a considerare il malcontento della piazza. Badando, contemporaneamente, a rifondare l’organico. Che, tra partenze scontate oppure no (Miccoli sta salutando, altri hanno ragionevolmente concluso l’avventura) e pedine da restituire al mittente, dovrà necessariamente essere rivisitato con intelligenza e perizia. Non sarà un’estate semplice, per capirci. Occorreranno scelte nette, convincenti. In tempi brevi, ovviamente. Senza contare che andrà risolto velocemente anche il problema legato alla panchina: Lerda potrebbe rimanere, ma la conferma non sembra, al momento, neppure automatica. Ma, innanzi tutto, si sta creando attorno al Lecce una certa atmosfera di prostrazione, di pessimismo. La risalita, creduta un atto dovuto o una pura formalità, rischia di diventare un gioco perverso, una maledizione. E Lecce, ormai disabituata alle logiche della terza serie, rischia di perdersi dietro la delusione, attorno alle difficoltà che pochi avevano previsto. O che tanti avevano trovato normale evitare.

sabato 31 maggio 2014

La favola del Bari e di Çani

Il calore della propria gente, appena ritrovato. L’ottimismo, rubato a fatica tra spifferi di gelida incertezza. E una nuova società, sorta tra i misteri di un’asta fallimentare e una corsa al rialzo. Il Bari aveva quasi tutto: nuovi padroni, ancora non sappiamo distintamente quali, compresi. Ma rappresentati da un personaggio di solida notorietà, ancorché contestato a metà dell’opera: Gianluca Paparesta. Mancava soltanto il passaporto per i playoff, un traguardo inimmaginabile prima e anche durante il campionato. Anche un mese fa. Eppure, diventato obiettivo concreto, nel tempo. Perseguibile. Malgrado tutto. Nonostante tanti fattori avversi. Ultima tornata di regular season, sognare si può. Ancora. Unico risultato utile, il successo. E avversario ruvido, per questione di urgenze opposte: il Novara assetato di punti. La squadra di Alberti e Zavettieri, però, marcia in compagnia di cinquantamila fedeli. Silenziosi, distratti o lontani per anni. Ma recuperati nel momento del bisogno, in quell’arco temporale che segna il tramonto di un’epoca e l’alba di giorni nuovi. Cinquantamila fedeli tutti assieme, oltre le reti di recinzione. Prima in fila, davanti ai tornelli. E poi sui gradoni. Dove, si dice, non sarebbe transitato neppure un sospiro. O un dubbio. Il Bari e la sua gente. Lo stadio che esplode, quasi. E, di fronte, un avversario già condannato agli spareggi: prima di giocare. Ma il match è lungo e neppure tanto facile. L’avversario resiste, anche se il Bari preme. Per quarantacinque minuti. Anzi, l’avversario è subdolo. Intervallo, si riparte. E il Novara passa e se ne compiace. Vedendo la salvezza diretta, addirittura. Ma non è finita. Non può essere finita. La favola non può evaporare così. Perché questa è la favola del Bari che non muore mai. Del Bari che reagisce, che non si scompone, che urla e graffia. Edgar Çani è un albanese arrivato in Italia assai giovane, nel millenovecentonovantuno, in un giorno che nemmeno lui ricorda. Ma che è impresso nella memoria collettiva della gente di Puglia, della gente di Bari. Il giorno della Vlora, quel barcone sovraccarico di uomini e donne alla ricerca di un presente, ancor prima che di un futuro. Çani è un albanese accolto da Bari e sùbito partito, direzione Umbria. Per diventare, più tardi, calciatore. E per frequentare punti differenti della penisola: da Palermo a Padova, da Piacenza a Catania. Ma passando pure per la Polonia. Che, però, Bari e il Bari riacquisiscono, quasi per caso, nel mercato suppletivo di metà stagione. Poche apparizioni, un po’ di panchina. Quindi, l’opportunità della partita decisiva. Suo è il sigillo del pari. Suo è il gol del raddoppio. Quello che prelude alla terza marcatura di Polenta, dagli undici metri, e al quattro a uno definitivo e spettacolare firmato da Beltrame. A Varese, contemporaneamente, affonda il Siena. E, dunque, è festa. Bari ai playoff: Dopo una rincorsa frizzante. Dopo aver temuto i playout per mesi bui. Ma con lo spirito di sempre. Con entusiasmo nuovo. E con una società pienamente funzionante, soprattutto. E’ la favola del Bari. E anche di Edgar Çani. Ventitre anni dopo, il favore è ricambiato.  

venerdì 30 maggio 2014

Padalino, una scelta di testa

Tre anni per disegnare un Foggia da B. La società ci crede. Pensando di riconsegnare le chiavi del progetto a Pasquale Padalino, caudillo di una squadra transitata con qualche difficoltà dalla serie D, ma approdata (con innegabili meriti da ascrivere al club) prima nell’ormai estinta C2 e, dunque, nella terza serie unica. Allenatore emergente, Padalino. E, dunque, sufficientemente ambizioso. E ben considerato anche al di là del territorio comunale: per un passato di discreto prestigio e per un presente interessante. Amato, peraltro, pure dalla sua stessa gente. Che, magari, non gli ha neppure risparmiato – prima, durante e dopo la rincorsa alla C – qualche critica circostanziata. Spesso condivisa, dietro le scrivanie, da chi regge il Foggia. Comunque, un foggiano. Un pezzo di Foggia, Padalino. E, probabilmente, anche l’anello di congiunzione di questa macchina assemblata in fretta, due anni fa. E ritrovatasi esattamente dov’era, prima del fallimento. In anticipo sui tempi. Padalino, però, si rifiuta di continuare a guidare il Foggia. C’è la proposta formalizzata dal presidente Lo Campo, che qualsiasi foggiano non scarterebbe mai. Ma non l’approvazione del tecnico. Che, invece, lascia cadere la trattativa: guardando oltre, chissà. Forse alla serie B, quella immediata. Sembra che le richieste non manchino, del resto. Vedremo. Tre anni, per scalare un altro gradino, sono troppi: o, almeno, così riusciamo a decifrare tra una dichiarazione e un’altra. Padalino, probabilmente, non ama sprecare i giorni. Oppure, questa forma di diniego è soltanto la più elegante tra quelle a disposizione per giustificare le riserve su un progetto che, evidentemente, non lo convince molto. Eppure, qualcosa ci suggerisce che Padalino, in fondo, non sbaglia a lasciare l’incarico e a proseguire per suo conto, altrove. Perché lascia da vincente. O da vincitore. Nel momento più felice della propria avventura sulla panchina di casa. Dribblando il rischio e, quindi, preferendo la comodità di un’altra sfida, lontano. Ma lasciando, dietro di sé, anche il ricordo migliore. Scelta di convenienza, può darsi. Fredda e calcolata, può essere. Una di quella in cui la testa prevale sul cuore. Ma tecnicamente e tatticamente ineccepibile. I sentimenti, nel pallone, sono controproducenti, troppo spesso.

giovedì 29 maggio 2014

Barletta, soluzione veloce

Chiarezza. Barletta e i barlettani pretendevano esclusivamente chiarezza. E chiarezza è stata. Immediata, pronta per l’uso. Le pratiche per il passaggio di proprietà del primo club cittadino si delineano in fretta, nell’arco di pochi giorni. Roberto Tatò cede a costo zero, come promesso. E cede un bilancio sano: cioè, senza debiti. Come più volte vantato. Giuseppe Perpignano rileva soltanto gli oneri di gestione. Accollandosi, oltre alle spese e agli ingaggi che verranno, anche il peso dei contratti già stipulati. Nessun bluff: né da una parte, né dall’altra. Altrimenti, la rapidità di esecuzione non si spiegherebbe. Prendere atto di certi particolari è un dovere, innanzi tutto. E onore all’imprenditore che lascia: stanco di delusioni e critiche, ma serio sino in fondo. Il nuovo che avanza sembra persona pratica e motivata. Perpignano conosce già il pallone: quello della serie D, quello del nord (arriva da Rapallo, Liguria). Che, lo sappiamo bene, è altro mondo, altra cosa. Però, ci mette sùbito entusiasmo e metodo. Allora, con solerte tempismo, ecco pure il nome del tecnico e del diesse che lavoreranno sul Barletta, per il Barletta: Marco Sesia e Marco Rizzieri. Anche loro arrivano da quell’universo differente del calcio imbastito al settentrione: ma, intanto, è sin troppo chiaro che la nuova società punti ad ottimizzare le settimane, a velocizzare decisioni e strategie. La realtà quotidiana chiede, peraltro, molto di più. E la managerialità va supportata ogni giorno da altre qualità. Ma a Barletta, per il momento, non possono chiedere di meglio. Dal caos dell’incertezza all’agio della tranquillità. E la certezza di potere difendere ancora la terza serie. Tutto in poche ore. E’ andata proprio di lusso.

mercoledì 21 maggio 2014

Bari, sta cambiando il vento

Bari ha un’anima. E, tra i suoi percorsi fede, c’è anche il pallone. Riscoperto velocemente al tramonto del regno dei Matarrese. Un’anima e pure un cuore. Zittito dagli eventi più recenti, eppure pulsante. Ma anche una memoria: di quello che il calcio, in riva all’Adriatico, ha rappresentato negli ultimi cento anni. E una certezza: quello che il senso di appartenenza e il rapporto bisettimanale con l’erba possono ancora rappresentare. E pure il Bari ha un’anima. Un’anima giovane e entusiasta. E motivazioni a sufficienza per non accontentarsi: né di una salvezza agganciata tra marzo ed aprile, né del semplice consenso popolare, guadagnato proprio nel mezzo di una rovente emergenza societaria. Adesso, dopo il successo rimediato sull’erba di casa di fronte al Cittadella nel posticipo del lunedì, davanti a più di trentamila affezionati, è tutto ben chiaro. Nel capitolo che conduce dritto ai playoff c’è spazio pure per la formazione gestita da Alberti e Zavettieri. E come. Dalla quart’ultima piazza al quinto posto, nello spazio di mezzo girone di ritorno: mentre, davanti, si apre il rettilineo che accompagna al traguardo. Nessun inganno, è la verità: il Bari, ormai, vince regolarmente in casa e pure più lontano. Schiaffeggiando la crisi con vivacità ed energia. E inaugurando, in pieno maggio, il suo nuovo campionato, felice appendice delle sfide già vinte: quelle contro la recessione e lo scetticismo. Nelle difficoltà, la squadra si è fortificata, si è irrobustita. E si è migliorata. Giorno dopo giorno. Alimentandosi, infine, del progressivo riavvicinamento del grande pubblico, pronto ad assicurare un supplemento di calore e a trascinare entusiasmi nuovi. E senza badare a quanto accadeva attorno oppure nelle aule del tribunale, bypassando anche gli spettri delle aste deserte: per convenienza, più che per disinteresse. Perché, come raccontano le cronache più recenti, alla terza licitazione, accorrono quattro gruppi imprenditoriali e quello coordinato da Gianluca Paparesta si incarica infine di sistemare tante cose. All’improvviso, il Bari scopre di potersi disegnare un futuro, creduto perduto. E di possedere, nel contempo, un presente. Ancora tutto da scrivere. Ancora tutto da vivere.  

martedì 20 maggio 2014

Grottaglie, festa doppia

Contro il Vico, tecnicamente neanche tanto male: una di quelle squadre partite persino discretamente e poi risucchiate dalla classifica, nel corso della stagione. Contro le sue stesse paure: che due soli punti guadagnati in dieci match, gli ultimi disputati, avevano dilatato oltre il limite della normalità. E contro troppi pronostici: tutti rigorosamente chiusi. Per la natura del match (gara unica in campo avverso), per il gap psicologico (un solo risultato a disposizione) e per quello scadimento strutturale e mentale accusato negli ultimi tempi, in coda al momento di maggior vivacità. E apparso, ad un certo punto, addirittura inarrestabile. Invece, il Grottaglie va a prendersi in costiera quello che gli serve, il successo. E si regala un altro anno di serie D. Il quattordicesimo di fila. I playout non ammettono amnesie. Ma, questa volta, la formazione di Pettinicchio c’è: passando in vantaggio, abbastanza presto, con Fumai, ripescato dopo molti giorni scanditi da un’indisposizione di stagione. E senza concedersi allo scoramento, quando i campani pareggiano, monetizzando una miscela di ingenuità e insicurezza di Prete. Ci pensa, alla fine, Formuso: il sigillo vincente è tutto suo. Due a uno: non ci avrebbe scommesso chiunque. Capolavoro di realismo, verrebbe da aggiungere. Senza troppa enfasi, prestazione solida, pulita. L’Ars et Labor si ricompatta nel momento essenziale: ritrovando stimoli, vigore, coordinate. Giocando da squadra consapevole delle proprie prospettive, sicura del risultato che al novantesimo la ricompenserà. E resistente al forcing finale dei campani, ma anche ai sette minuti di recupero che sembrano voler rimandare o zittire la festa. Ma la festa, prima o poi, esplode. Festa doppia. Per la conservazione della serie D, prima di tutto: arrivata in ritardo sui tempi programmati. E, comunque, centrata. Ma pure per la sopravvivenza del pallone a Grottaglie. Che, di fronte alla dura realtà dell’Eccellenza, si sarebbe liquefatto. Potete crederci.

lunedì 19 maggio 2014

Taranto, fine della corsa

L’Arezzo non abbaglia. E non dispone neppure del campo, come certe cronache tentano di raccontare. Semplicemente, attende: il momento ideale per graffiare. E attende un bel po’: praticamente, una gara quasi intera. Alzando i ritmi nell’ultimo quarto d’ora di gioco: dopo aver gestito il traffico con una terza linea alta e un atteggiamento rispettoso. Non rinunciatario: ma poco più che timido. Lasciando, però, poca manovra ad un Taranto di per sé svuotato, fisicamente arrivato. La formazione di Papagni è stanca: s’intuisce da sùbito. E, agli albori del secondo tempo, l’energia è già evaporata. Tre gare in una settimana si pagano. E soprattutto, corrodono quei supplementari del mercoledì precedente, ai quali l’ha obbligato l’ostico Monopoli. Ciarcià, è vero, rientra da una lunga vacanza. E riappare nell’undici titolare anche Molinari. Mentre Clemente, in coda alla lunga squalifica che l’ha fermato, si accomoda soltanto in panca. Con Mignogna. Ma, evidentemente, non basta. Troppe pedine accusano la fatica di una stagione intensa. E poi, in mezzo al campo, i problemi sono noti: mancano ordine e fantasia. Così, il primo match della terza fase, quella dei playoff allargati su scala nazionale, è immediatamente scomodo. L’Arezzo, dicevamo, non si apre e non si abbassa, fluttuando sull’erba. Ma qualcosa tenta ugualmente. Nulla di avvincente, tuttavia: perché, davanti, i toscani non sembrano troppo maliziosi. Però il Taranto, che può appoggiarsi sulla spinta del pubblico amico, pressa zero e conclude pochissimo. L’unica occasione seria càpita a Balistreri, che segna: offside, dice il direttore di gara. Poi, più niente. I calci di rigore, in assenza dei tempi supplementari, appaiono l’epilogo più ovvio. La gente di Papagni li attende, come una liberazione. Ma l’Arezzo, finalmente, capisce che può osare. E, a quattro minuti dal novantesimo, il mediano Carteri sistema la questione. Amaranto alle semifinali. Il cammino del Taranto, invece, si interrompe. Complicando la pratica burocratica per la domanda di ripescaggio. Che, comunque, dovrebbe essere inoltrata lo stesso (converrebbe, effettivamente). L’inclusione alla fase successiva, però, avrebbe pesato un po’: e questo è chiaro, sin da ora. Ma, probabilmente, questo organico ha ottenuto dalla sua stagione strana e discontinua quello che sarebbe stato logico aspettarsi. E niente di meno. Anzi, forse qualcosa in più. Occorre farsene una ragione, in riva ai due Mari.

venerdì 16 maggio 2014

Foggia, il progetto si rafforza

Foggia smaltisce lentamente l’euforia. La sua legittima euforia: la serie C, la nuova serie C, è oggettivamente un approdo fondamentale. Innanzi tutto, per certe premesse di neanche due anni fa (fallimento e inserimento tra i Dilettanti). Ma anche per aver dignificato come merita la progettualità ambiziosa eppure composta del gruppo di comando del club: sempre realista, ma mai disattento agli input della realtà. Cioè, puntualmente presente. E quasi sempre sotto traccia. Oppure, il lavoro concreto e lungimirante di Padalino e Di Bari: abili nell’assemblare esperienza e rampantismo dello scacchiere (tutti ci provano, a qualsiasi latitudine, in ogni categoria: pochi riescono, se facciamo due conti). E poi sì, è chiaro: la serie C, oggi come oggi, non può non coinvolgere una piazza come quella di Foggia. Forse, anche perché stiamo tornando a riassaporare quelle atmosfere della terza serie di un tempo. Dovrebbe essere, quello che sta nascendo, un campionato rivalutato dalla rivisitazione del Palazzo. Più che dal punto di vista tecnico, da quello dello spessore mediatico. Un torneo con un peso specifico maggiore, diciamo così. E dove il blasone della concorrenza non mancherà. Anzi. Dopo l’euforia, però, viene anche il momento di riunire i concetti di base e di razionalizzare le idee. La società dauna, e di questo va dato atto, non ha sciupato troppe settimane. Riallacciando immediatamente il filo del discorso interrotto dalla festa. E ripartendo il piano della scalata alla B nelle prossime tre stagioni. Dalla prima riunione programmatica postpromozione, vengono fuori alcuni numeri: è previsto lo stanziamento di un milione e ottocentomila euro per la stagione che verrà. Due milioni e mezzo per quella successiva. E, come prevede la strategia dell’investimento crescente, il Foggia conta di destinare tre milioni e duecentomila euro per il 2016/2017. Tra parentesi, non pochi, oggi come oggi. Il disegno, ovviamente, potrà tenere di conto di alcune variabili, come lo sfruttamento delle risorse del settore giovanile (che andrà, però, rafforzato) e, soprattutto, dell’accostamento di altri imprenditori interessati a fare calcio in Capitanata (una volta latitavano: e adesso?). Ma le buone intenzioni sembrano, almeno, garantite. Sin da ora. Aggiungiamo, anzi, che le programmazioni migliori sono quelle che si pianificano presto e si sviluppano in prospettiva. Tre anni sono un arco di tempo appropriato e una previsione responsabile, seria. Di più: piace soprattutto quella chiarezza di fondo nelle cifre. Che spiega, da sùbito, la soglia di risorse entro la quale occorre operare. E oltre la quale non si può navigare. Affinché tutti sappiano, con adeguato anticipo, qual è il raggio d’azione del club. E per tracciare - alla città e alla tifoseria - il giusto binario di percorrenza. Giusto per non generare, in un domani più o meno prossimo, inutili illusioni.

giovedì 15 maggio 2014

Il Monopoli si ferma, il Taranto avanza

E, infine, la finale dei playoff del raggruppamento appulocampano di D si gioca a Taranto, nella sua sede naturale. E a porte aperte. Non tutte, per la verità: quelle della Curva Nord, la casa della parte più calda del tifo jonico, rimangono chiuse. Chissà poi perché, dal momento che le cattive azioni, prima e durante l’ultimo match, si sono consumate anche altrove. Iin tribuna, per intenderci. La squalifica dell’impianto, però, viene cancellata dal secondo grado di giudizio, in meno di ventiquattr’ore. Proprio mentre viene pubblicizzato il campo neutro, quello del Fanuzzi di Brindisi. Ingaggiato, peraltro, dopo aver ristretto fortemente i tempi e aver forzato il regolamento (settanta chilometri di asfalto non sono cento, come prevede la norma originaria). Ma così è, in Italia. E conviene abituarsi. O rassegnarsi. La finale trafigge un mercoledì autunnale di maggio e dribbla il Giro d’Italia che riparte proprio tra i due Mari. Di qua il Taranto, più protetto e discreto, schierato senza l’assillo del successo tassativo. Di là il Monopoli, più dinamico e rapido, ma obbligato a forzare il destino di un match che non gli consente neppure di pareggiare. La formazione di Cocco è più animata dall’urgenza e si sente: la gente di Papagni si spaventa un po’ e, allora, provvede a irrobustirsi in entrambe le fasi, alzando il quoziente di aggressività. Molinari è acciaccato e agli jonici viene a mancare il terminale naturale. Gli adriatici, di contro, cominciano a perdere un po’ di palloni importanti, ma concludono più spesso (e senza precisione) in virtù di una manovra più diretta. Il gol, tuttavia, lo trova il Taranto, con l’ex Balistreri, poco prima dell’intervallo. E la marcatura spacca la partita, indirizzandola sino al novantesimo. Anche perché, nella ripresa, la migliori intenzioni del Monopoli si slabbrano e la pressione non si evolve. Mentre, nel tempo, il Taranto disciplina correttamente la gestione delle situazioni. Ma, proprio al novantesimo, Laneve (il ragazzo entra un’altra volta a gara in corso, segnando) sbuca al posto giusto e nel momento giusto, aprendo la strada dei supplementari. Dove il Monopoli arriva con ossigeno limitato e il Taranto, forse, ancora più stanco. E dove la squadra di Papagni riesce comunque a conservare il vantaggio di partenza, con sacrificio e sudore. Il Monopoli si ferma, ma credendoci sino in fondo, E rimediando una gran bella figura. Il Taranto avanza, spendendo molto e cominciando a temere il nuovo impegno, ormai vicino (domenica prossima). Il verdetto è quello più pronosticato. E, crediamo, anche complessivamente credibile. La seconda piazza in regular season di Prosperi e compagni, di fronte alla quarta raggiunta da Lanzillotta e soci, significa pur qualcosa. E qualcosa valgono anche i tre scontri diretti complessivi: in cui il Taranto rimedia sempre il risultato. L’ultimo dei quali consente di sperare ancora in una promozione di scorta. Sempre che la società bimare confermi la solidità economica che vanta di possedere. Piaccia o no, il ripescaggio è una questione di campo, ma anche e soprattutto di scrivania.

martedì 13 maggio 2014

Lecce, pronostico rispettato

Partono i playoff, anche quelli di terza serie. E il Lecce risponde, da sùbito. Il primo step è superato, ma non senza apprensioni. La qualificazione al turno successivo è garantita solo dopo i calci di rigore: a via del Mare scende il Pontedera e il pareggio maturato nei tempi regolamentari e in quelli supplementari è insufficiente. Il terzo posto della regular season, del resto, concede qualche vantaggio, come il diritto a giocare sul proprio terreno di gioco: ma il passaggio del turno va pure guadagnato, in qualche maniera. Traducendo, si soffre. Com’è pure normale che sia. Il pronostico riceve il rispetto che pretende, però i toscani convincono complessivamente di più, sul piano della manovra. E, anzi, la formazione di Lerda deve aggrapparsi alla performance positiva del suo guardasigilli Caglioni, che blocca un paio di soluzioni toscane proprio in prossimità del novantesimo: quando, cioè, sarebbe venuto a mancare il tempo per rimediare. Il Lecce è sbiadito, un po’ svagato. E, probabilmente, l’atteggiamento tattico (una sola punta, Zigoni) finisce per inviare alla squadra un messaggio annacquato. Il Pontedera gode, ad un certo punto, di troppo campo e, più tardi, un calo fisico di Bogliacino e soci non agevola il compito. Ma, soprattutto, il problema sembra mentale: magari, è proprio quel vantaggio dettato dalla classifica ad irretire il gruppo. A limitarlo. A frenarlo. E anche la consapevolezza di essersi cuciti addosso un finale di stagione particolarmente brillante allontana l’essenza della realtà. Ad ogni modo, il Lecce bello ed autorevole di un mese addietro si affloscia all’improvviso, quando sarebbe invece opportuno offrire qualcosa in più. Adesso, però, il format degli spareggi per la seconda piazza si modifica, passando dalla gara unica al doppio confronto (domenica, ad esempio, si viaggia per Benevento e poi ci si ritrova nel Salento). Modellando una situazione strana, dal punto di vista estetico e logico: perché un calendario caotico non giova al pallone, soprattutto di questi tempi. Ma, chissà, persino conveniente per il Lecce. Che potrebbe inconsciamente avvertire il bisogno di doversi giocare la promozione con le pari opportunità. A mente sgombra.

lunedì 12 maggio 2014

Playoff, derby di Puglia

Tempo di playoff. E’ il momento di esibire gambe e testa. E il Taranto, mentalmente, è più pronto del Marcianise, protagonista nella regular season, ma un po’ distante e non eccessivamente convinto nella lotteria degli spareggi di fine campionato. Che, forse, serviranno e, forse, no: ma che, intanto, andrebbero affrontati con più intensità e maggiore presenza scenica. Eppure, ad un certo punto del match, i casertani scoprono di poter rincorrere il risultato e, con un uomo in più (Pulci si fa espellere troppo presto: ancora una volta, la gente di Papagni si lascia tradire dalla foga, se non dalla tensione), intensificano il ritmo. Lo svantaggio di un gol, a quel punto, non sembra affatto incolmabile: anche perché il Taranto ha ormai ceduto troppo campo, avvertendo i sintomi di un timore diffuso. Ma la manovra della formazione di Fogliamanzillo si sfilaccia spesso sull’onda di una brillantezza ormai perduta. E, oltre tutto, l’imperizia del guardasigilli campano Imbimbo regala agli jonici un altro gol, il terzo: quello che praticamente chiude la sfida. Così Molinari e soci, non senza soffrire qualcosa, raggiungono nella finale del girone appulocampano di D il Monopoli, che nel frattempo, si libera della Turris. Ma il responso è, fondamentalmente, corretto: il Taranto offre qualcosa di più dal punto di vista della quantità. Malgrado le assenze copiose: tra le quali spicca quella di Ciarcià, l’unico centrocampista dell’organico sostanzialmente in grado di assicurare idee e un po’ di qualità. Che due mediani di filtro e fatica come Muwana e Menicozzo, ovviamente, non possono garantire. Allora, è soprattutto dalle corsie esterne (piacciono Mignogna e Migoni) che spuntano le cose migliori. Anche se, poi, la manovra lievita per una ventina di minuti e non di più: appena il Taranto, cioè, si dota di maggior rapidità e aggressività. E appena i suoi singoli scavano la differenza (storia vecchia). La storia, dunque, continua. E si torna in campo prestissimo: mercoledì, per la precisione. E in campo neutro (e a porte chiuse). Perché, intanto, il giudice sportivo squalifica lo Iacovone, turbolento prima e durante il match. Nonostante non sia ancora chiaro se i grossi petardi esplodono all’interno o all’esterno della struttura (poco importa: la responsabilità oggettiva del club permane in entrambe le ipotesi). Però, il derby con il Monopoli, tornato compatto e lucido al momento decisivo (cinque gol in trasferta fanno morale), sembra voler finalmente premiare il calcio pugliese di quinta serie, punito dalla maggior concretezza del Matera. Ma, soprattutto, la squadra che saprà imporsi tecnicamente. Certo, è il momento di sfruttare testa e gambe. Ma, a parità di motivazioni (che a jonici e adriatici non mancano, oggettivamente) potrebbe e dovrebbe decidere il calcio prodotto. Almeno per una volta. Ci sono tutti gli ingredienti per crederlo: e la cosa non ci dispiace.

mercoledì 7 maggio 2014

Longo, la svolta del San Severo

I dati mentono difficilmente. Dei numeri occorre tenere conto. E le statistiche, nel caso specifico, raccontano chiaramente: con l’arrivo di Emilio Longo sulla panca, il San Severo si ricrea, si ravvede, si fortifica. Immediatamente dopo il quattro a zero di Monopoli, la formazione dauna è incerta, fragile, moralmente fiaccata. L’involuzione sembra radicale. La classifica sprofonda e il primo responsabile tecnico della stagione, Danilo Rufini, viene accantonato. Persino ingiustamente, in quel preciso momento storico: perché l’organico, pesantemente saccheggiato tra il girone di andata e quello di ritorno, non sembra oggettivamente assicurare robustezza e alternative. L’avvicendamento, però, è tonificante. E non occorre neppure attendere troppo. La squadra reagisce, migliora l’approccio con ogni gara, cresce per intensità e densità, produce e realizza di più, acquisisce dimestichezza con il risultato e, abbastanza rapidamente, riemerge dal fondo della graduatoria. Il San Severo, cioè, un mese prima della conclusione della regular season, è ragionevolmente al riparo da complicazioni fastidiose e, malgrado la matematica conforti solo all’ultimo turno, la salvezza virtuale arriva persino in anticipo sui tempi. L’ultimo tassello del puzzle è il pareggio maturato di fronte al Francavilla di Lazic, sul neutro di Lucera, la casa di un anno intero: un impegno di pura formalità. Ma sono i trentasette punti collezionati a trascinarsi il sapore dell’impresa. Forgiata da un atteggiamento evidentemente più positivo e propositivo e dal lavoro applicato prima sulle teste e poi sulle gambe della squadra: dotata di risorse tecniche limitate, ma anche di tempra. La salvezza, senza neppure transitare dai playoff, è oggettivamente un traguardo inatteso. E, ad un certo punto del cammino, inimmaginabile. Anche per quell’antipatica controindicazione che si è rivelata l’indisponibilità, per tutta la stagione, del proprio terreno di gioco: che, ora, diventa la condizione essenziale per poter imbastire il progetto che conduce al prossimo torneo. Prima il Ricciardelli, poi la rielaborazione dell’organico: la lista delle priorità è già pronta. Mentre il gestore della panchina sembra, sin da adesso, un punto fermo: Longo si è già guadagnato la riconferma. Se vorrà rinsaldare il rapporto con il club, dovrà soltanto comunicarlo.

martedì 6 maggio 2014

Martina, game over

Nelle sfide che tracciano un segno, il Martina nicchia e si arena. Così nel corso di un campionato speso a rimorchio dei dubbi e delle ansie. Così nell’atto conclusivo di una regular season che, a questo punto, non presuppone appendici. A Messina si gioca per due risultati: il successo, che servirebbe a catturare il miglior piazzamento nella griglia dei playout, e il pareggio, utile ad entrare nel circolo delle quattro società che si giocano l’unica posto rimasto nell’istituenda C unica. E, invece, oltre lo Stretto schizza l’unico score indigesto. La sconfitta matura ad una manciata di istanti dalla chiusura del match e della stagione: dunque, quando non è neanche più possibile riparare. E, proprio per questo, brucia tanto di più. Soprattutto, se proviamo ad analizzare sommariamente la partita, perché la formazione di Tommaso Napoli conduce temporaneamente con una rete di vantaggio, dopo aver ribaltato la precoce marcatura di Costa Ferreira. Il portoghese, però, bissando la soddisfazione personale, più tardi vidimerà il ritorno tra i dilettanti di un club, il Martina, che aveva creduto di poter stoppare il declino con una campagna di rafforzamento invernale generosa e beneaugurante. La retrocessione, piuttosto, smentisce qualsiasi forma di ottimismo alimentata – non senza fondamento – durante il percorso: perché, malgrado la prossima serie D sostituisca, di fatto, questa Seconda Divisione (per intenderci: si passa da una quarta serie ad un’altra quarta serie), pur sempre di retrocessione si tratta. Dettata, lo riassumiamo ancora una volta, da un avvio di campionato zoppicante, da qualche intervento arbitrale penalizzante e, innanzi tutto, dalla lunga sequenza di match ball inutilizzati, tra febbraio ed aprile. Ma anche da una consistenza di squadra mai pienamente raggiunta, nonostante l’innegabile lievitazione delle idee e del modulo di gioco. In una sola frase: la sensazione che tormenta è quella di un Martina persino vitale, nel punto cruciale del torneo, ma incapace di offrirsi per intero e di gestirsi sempre e comunque. Sintetizzando ancora: il Martina sembra aver dato (e speso) tanto, nel girone di ritorno. Ma non abbastanza. Pur avendone facoltà, riteniamo noi. Molto spesso, tuttavia, e di questo ne siamo perfettamente consapevoli, i campionati nascono male e finiscono peggio. E sappiamo pure che nulla è davvero scontato, nel pallone. Dove qualsiasi delusione cocente, di solito, apre porte e finestre a non pochi dubbi. Che, a queste latitudini, già si schierano minacciosi. Ad esempio: i sovvenzionatori esterni apparsi a lavori in corso (Ghirardini, ma non solo) investiranno ancora in serie D? E poi: il gruppo di lavoro al vertice societario potrà nuovamente incaricarsi di programmare la scalata al professionismo (vincere la D, da qui in avanti, implicherà un sacrificio economico suppletivo)? Infine: il pallone, in Valle d’Itria, possiede un futuro oppure no?

lunedì 5 maggio 2014

Bisceglie, lampi sui titoli di coda

L’anonimo campionato dl Bisceglie si evolve proprio in prossimità dei titoli di coda: quando il risultato è assolutamente svincolato dall’urgenza, quando il senso della stagione si è ormai annacquato e quando, soprattutto, la classifica della formazione affidata a poco più di due mesi dal traguardo a Carlo Prayer è impermeabile a qualsiasi desiderio. A salvezza ormai maturata e a playoff irraggiungibili, però, Zotti e soci mettono assieme sette punti negli ultimi centottanta minuti: sbarrando, oltre tutto, la strada alle tre principali candidate alla retrocessione diretta. Deve accontentarsi di un punto la Puteolana e, di seguito, cedono il Grottaglie e il Gladiator: e sono, infatti, i sammaritani a sprofondare in Eccellenza. Non concede sconti a nessuno, il Bisceglie. Dopo aver promesso impegno massimo nell’ultima fase della regular season. E dopo aver sollevato non pochi dubbi negli avversari appena incontrati: timorosi di aver pagato per tutti. Ma, alla fine, smentiti dai fatti. Complimenti al club stellato, allora. E complimenti pure al suo nocchiero: fiero di aver raggiunto, a carriera inoltrata, la panchina di una prima squadra. E di essere stato investito dell’incarico da una società di prestigio, in un torneo di rilievo. Del resto, assicurando l’assoluta regolarità della battaglia per la salvezza, Prayer si era caricato un impegno gravoso: non solo nei confronti degli avversari, ma della sua stessa gente. Sapendo, peraltro, di giocarsi parecchie chances personali. Giocando anche con la sua stessa riconferma. Che non è affatto sicura, neppure adesso (primo, perché patron Canonico deve ancora decidere come comportarsi, in prospettiva futura). Ma che, oggi, non appare una soluzione impossibile. Il tecnico barese, intanto, ha colto l’occasione offertagli con serietà granitica, con dedizione solidissima. Contando, come lui ha stesso ha più volte sottolineato, sulla disponibilità tangibile di chi va in campo e sulla complicità di tutto l’ambiente. Finendo per alleviare le preoccupazioni sorte sulla piazza nel momento in cui il suo predecessore Favarin si ritrovò sollevato da qualsiasi responsabilità. Intuendo, probabilmente, che il Bisceglie necessitava innanzi tutto di due ingredienti, per concludere il proprio cammino nel miglior modo possibile: la tranquillità, nello spogliatoio e in campo, e la libertà di espressione. Quella che ha accompagnato nella fase conclusiva del torneo i suoi big: appartatisi prima di decollare e poi ricomparsi, a collettivo ricompattato. 

mercoledì 30 aprile 2014

Il Taranto e le occasioni che contano

Prima il Brindisi, dopo il Francavilla, poi il Monopoli, quindi il Marcianise, infine la Turris. Una dopo l’altra, cadono molte protagoniste della quinta serie che alberga tra la Puglia e la Campania. E il campionato seleziona le forze migliori. Premiando, cioè, chi ha sbagliato meno. Il rush finale è una corsa che riguarda Matera e Taranto. E nessun altro. Lotta a due, battaglia dura. Stessa resa (cinquantotto punti, prima di domenica scorsa), stessi match a disposizione (due). E, attorno, il profumo di spareggio. Incandescente, affascinante. Ma in questo torneo, ormai lo sappiamo, le porte si aprono, si chiudono, si riaprono e si richiudono con facilità disarmante, in un vortice di emozioni purissime. E davvero niente è scontato. Oltre tutto, il calendario è infido per tutti, sino in fondo: anche per il Matera, che viaggia verso Vico. E pure per il Taranto, ospitato dal Marcianise. I costieri cercano punti per salvarsi, ma la gente di Cosco passa ugualmente. Mentre la formazione jonica si ferma, spartendo la posta con i casertani, troppo orgogliosi per rassegnarsi alla quinta piazza dopo tre quarti di stagione di rilievo e qualità. Ecco, allora, che i destini sembrano compiersi prima del tempo: il Matera vede la C e progetta di superare in casa il Manfredonia, nel prossimo match, per festeggiare. E il Taranto mastica amaro, amarissimo. Rispolverando tutti i suoi limiti proprio davanti al traguardo. Non è, del resto, un segreto: con esperienza e personalità, Papagni ha occultato (o ridimensionato) la natura sdrucciola di un organico male assortito, poco equilibrato (penetrante nell’area avversaria, morbido in fase di filtro e non possesso) e non sempre credibile nelle occasioni che contano. Cioè, nelle gare che indirizzano la stagione. Sin quando ha potuto, però. Per intenderci: gli accorgimenti tattici e il buon senso del tecnico biscegliese, con il sostegno di un alto quoziente realizzativo, hanno finito per sostenere il collettivo, mantenendolo sin qui in prima fascia: eppure, i problemi strutturali di un tempo sono rimasti tutti e gli infortuni individuali e di reparto hanno scritto il resto. Pesando al momento della verità. La partita di Marcianise, peraltro, riassume un po’ di verità assolute. Denudando, al contempo, un atteggiamento difettoso: il Taranto si porta in vantaggio per due volte, finendo però per intimorirsi e per concedere metri e iniziativa alla manovra della formazione di Fogliamanzillo. In sostanza, reticenze e personalità sbiadita condannano la squadra ai playoff: a meno che il campionato non riservi, al fotofinish, l’ultimo coup de theatre. A verdetto virtualmente scritto, tuttavia, non possono convincerci le prime accuse, più o meno feroci, schizzate irrazionalmente sulla società, sul tecnico e sugli effettivi di un organico allestito con sacrifici estivi non indifferenti e, soprattutto, in fretta, alle soglie del torneo. La riappropriazione del calcio, sui due Mari, d’altra parte, è un processo lento che deve tenere conto di molti dettagli e, prima di ogni altra cosa, degli insegnamenti del passato. Approfondire le valutazioni ed esercitare il diritto di critica è legittimo. E, anche da queste colonne, nessuno ha mai circumnavigato la questione, discutendoci sopra. Ma sparare addosso a questo Taranto, sia pure sulla scia della delusione o della frustrazione, è ingiusto. Almeno questa volta, le attenuanti ci sono: e sono roba seria.  

martedì 29 aprile 2014

Martina, tra delusione e speranze

E, ad un certo punto, arrivano i momenti in cui le parole e i disegni non contano. In cui, invece, serve esclusivamente vincere. Non importa come. Chiunque si pari di fronte. Generalmente, peraltro, questi sono momenti che arrivano in fondo al viale, davanti ad un bivio. Di qua il destino che si accartoccia sotto il peso della colpevolezza: e che, nel caso specifico, si chiama retrocessione. O serie D. Ovvero, la reimmersione nell’universo dei dilettanti: di nome, più che di fatto.  Di là, la redenzione della serie C, quella unica, quella tutta nuova pensata dalla Lega e da un calcio che prova a sopravvivere a se stesso. Cioè, la cancellazione di ogni peccato accumulato in corsa, sin dagli albori della stagione. E, nel mezzo, quella lotteria degli spareggi di fine corsa: che si chiamano ufficialmente playoff e che, questa volta, sono contemporaneamente playoff. Quella lotteria un po’ bizzarra alla quale il Martina, ad un certo punto, si era persino ribellato, provando ad ottenere di meglio. E alla quale, infine, proprio nell’ultima settimana si era concettualmente affezionato: un po’ perché l’ottavo posto (l’ultimo utile alla promozione diretta) era ormai blindato dal Lamezia. E un po’ perché la ricorsa recente ha offerto i numeri giusti per pensare ad una scappatoia un po’ scomoda, ma ugualmente utile (a fine playout, la migliore passa in C e le altre tre affondano in D: mai accaduto, su questi campi). Vittoria deve essere, allora: senza dubbio alcuno. E vittoria, alla fine, è stata. E non importa se la gioia si libera oltre il novantesimo, pochi secondi dopo aver incassato il sigillo del pari: che l’avversario non cerca, ma trova. Quasi per sbaglio. Magari, senza troppo gradire. La formazione di Tommaso Napoli, a centottanta minuti dalla conclusione, s’imbatte nel Cosenza già promosso, sparring partner che s’impegna per obbligo, non per convinzione. Approccia senza foga, si nutre dell’accondiscendenza altrui, ma non sfonda. Segnare dovrebbe diventare l’operazione più naturale, ma la manovra s’inaridisce e un certo fastidio cresce. Il lavoro di Montalto e Arcidiacono, prima degli altri, è però premiato dalla costanza e dall’istinto del bisogno: il gol dell’artigliere siciliano sembra promettere la prosecuzione dell’avventura. Tutto, invece, si complicherà più tardi, a fase di recupero già avviata. Per appianarsi magicamente qualche istante più avanti. Perché così è scritto. E così deve essere. Attenzione, però: non cede il Martina e non cede neppure la concorrenza. La posizione di vantaggio – certo - resiste, ma non basta ancora. Traducendo, i playout e le speranze di salvezza vanno ancora guadagnati: all’ultimo chilometro si supera lo Stretto e si rende visita al Messina, un’altra delle otto squadre già qualificate al prossimo campionato di terza serie. In certi frangenti, i favori della provvidenza sono particolarmente graditi. Di contro, un po’ di rammarico affiora ugualmente, emerge. L’obiettivo dell’ottava piazza, creduta tra marzo ed aprile un traguardo oggettivamente raggiungibile, svanisce nello spazio di due settimane e il disappunto è corposo. Alla fine, cioè, pesano le occasioni perdute, i punti sperperati.. Incide quel gap di partenza vincolante: che un organico ampiamente rinnovato e qualitativamente migliorato dopo il girone di andata aveva tuttavia esorcizzato. E non paga neppure quella consapevolezza di essere diventati all’altezza del compito, in coda ad una partenza affaticata. Potremmo sbagliarci, ma ipotizziamo lo stesso: forse è proprio quella sicurezza acquisita a metà del cammino a generare nel gruppo un pizzico di supponenza o di rilassamento. Di sicuro, la seconda versione del Martina semina senza raccogliere, lasciando qualcosa per strada. E quel qualcosa è decisivo: il progetto di base non si evolve, non si compie. Nel percorso, ci sono le premesse: ma difetta la conclusione. E la sensazione che resta è quella di un’operazione incompiuta. Che soltanto il primo posto nel girone finale potrà scacciare.

lunedì 28 aprile 2014

Lecce, manca l'acuto finale

L’impresa è esagerata, ma la speranza deve reggere sino in fondo. L’ultimo atto della regular season nasconde un obbligo: vincere e sperare. Che le avversarie realizzino poco o niente e che poi, la domenica successiva, si accontentino di un pari nello scontro diretto. Finendo per avvantaggiare, in qualche modo, la terza concorrente che, per l’occasione, riposa. E che, dunque, non potrà incrementare la propria classifica. Diciamo pure che, da una certa angolazione, non va benissimo: il Frosinone si libera agevolmente, in casa, dell’Aquila. Ma neppure malissimo: il Perugia, a Salerno, pareggia. Solo che il Lecce, a Pisa, stecca. Disperdendo la possibilità di spareggiare con gli umbri e autoinfliggendosi la punizione dei playoff con una settimana di anticipo. Niente primo posto: nemmeno per sette giorni. Ma neppure seconda piazza e, quindi, niente pole position nella griglia degli spareggi di maggio. La formazione di Lerda, invece, si ritrova terza della classe: condizione, questa sì, inattaccabile. In Toscana, del resto, l’avversario è immediatamente più pronto. Il gol che decide il match piove abbastanza presto, dopo appena undici minuti. Il Lecce non saprà rimediare: Miccoli ci prova e spreca il pari, poi il tecnico decide di avvicendarlo con Zigoni. Da qui in poi, la squadra si spegne, rassegnandosi alla crudezza della realtà. Bogliacino e compagni si fermano un attimo prima del traguardo: pagando, forse, lo stress accumulato in una rincorsa dispendiosa. Soffrendo, una volta di più, la pressione dell’evento. Fallendo, così come in occasione dell’ancora recente sfida con il Perugia, l’approccio ad una gara troppo delicata. E, probabilmente, inchinandosi anche di fronte al fattore psicologico: il Lecce, magari, non ci crede sino in fondo. Oppure no: perché è così, in fondo, che doveva andare. Qualche giorno di silenzi e di riposo, allora, serviranno ad assorbire delusione e rabbia. Quindi, la giostra dei playoff. Crederci, questa volta, è assolutamente necessario.

mercoledì 16 aprile 2014

Grottaglie, crollo verticale

C’era una squadra incerta ed ingenua, minacciata da complicazioni societarie stringenti, in difficoltà palese sull’erba amica, immatura nella gestione dei passaggi fondamentali: era il Grottaglie di Alberto Bosco, esautorato a metà del cammino, prima della rivisitazione tecnica e del consolidamento del club. Così, Giacomo Pettinicchio ereditava una classifica affaticata e un organico migliorato negli uomini e arricchito numericamente: e, con le energie nuove, l’esperienza del nocchiero e il lavoro, lievitavano la produzione di gioco, l’abitudine al risultato e, dunque, le speranze. Il nuovo Grottaglie, lentamente, si arrampicava sulla classifica, avvicinandosi al traguardo. Rifiutando idealmente persino la prospettiva dei playout, così scomodi e misteriosi. Rivolgendosi, in seconda persona, anche alle big del torneo. Pur senza ottenere, tante volte, la moneta che avrebbe pienamente meritato. Ecco, proprio in questo segmento temporale, segnato da un’evoluzione strutturale e tecnica, cominciava invece a propagarsi il male: figlio legittimo di un’involuzione mentale, ovvero psicologica. Contraccolpo violento, verrebbe da dire: la scarsissima resa, a fronte del buon calcio espresso, finiva per spegnere la squadra, velocemente. Proprio mentre il calendario si addolciva. Proprio mentre la concorrenza si risvegliava. Guardare la classifica, in questo momento, impaurisce: il Gladiator, ultimo, è appena un passo indietro. La Puteolana ha appena formalizzato il sorpasso. Qualche scontro diretto (a Metaponto, in casa con il Vico, sul sintetico di Manfredonia) è transitato invano, lasciando in dote appena un punto: che, poi, è l’unica e insufficiente soddisfazione degli ultimi due mesi. E i playout, alla fine, sono addirittura un’incombenza niente affatto scontata, eppure da salutare volentieri. L’ultimo capitolo, in terra sipontina, illustra sapientemente il crollo verticale. E fotografa le fatiche di una squadra che non sa più reagire alle avversità. Schiacciata, probabilmente, dalla sua stessa (e genetica) fragilità. Che l’ordine tattico e la manovra più spigliata, sicuramente, hanno occultato per un po’: senza, tuttavia, annientare. E scoprendo il lato più intimo e debole del carattere del Grottaglie: quel carattere che la società, adesso, pretende. Ringhiando.

martedì 15 aprile 2014

Lecce, provarci è un diritto

La lunga rincorsa irrobustisce i muscoli e gli appetiti del Lecce, che sull'erba di casa si scrolla pure lo spessore del Frosinone, sin qui leader di un campionato che ancora non conosce nitidamente il suo stesso destino. Due a zero secco, legittimato dagli eventi, di forza e rabbia, di decisione e fame. E’ il successo del sorpasso in graduatoria, che però non significa prima piazza. Ne approfitta, piuttosto, il Perugia di Camplone, nuovo favorito numero uno al salto di categoria senza passare per la pericolosa via dei playoff. La gente di Lerda si accoda, un punto dietro. E sembra in grado di poter ruggire sino in fondo, di dire la sua sino all’ultimo minuto. Ma il calendario è nemico e si beffa del Lecce, che può contare su una gara in meno, in confronto alla concorrenza: il turno di riposo, proprio all’ultima giornata, è un ostacolo troppo alto per essere bypassato con nonchalance. Nella domenica della verità, cioè, la realtà si racconta per quella che è: magari, la rincorsa può regalare il miglior piazzamento nella griglia degli spareggi di fine stagione. Ma non di più. Anche se il pallone non è scienza esatta e, in determinate situazioni, tutto può accadere. Tanto che, nel Salento, la religione impone di confidare ancora e di battersi sino a quando la matematica spiegherà l’evidenza. Ragionevolmente, però, la storia della promozione diretta sembra già scritta e il Lecce non fa parte di questa storia. La regular season si esaurisce troppo presto. O, meglio, la squadra ha guadagnato sostanza e continuità troppo tardi. Ma il futuro prossimo, oggi, non fa troppa paura. Gode di buona salute, questo Lecce. Le gambe stanno reggendo: non si spiegherebbero, del resto, un rush finale così sciolto e l’alta produttività degli ultimi tempi. E, se il fiato non manca, di solito funziona anche la testa: guadagnarsi l’accesso alla B in seconda battuta non è poi così proibitivo. Provarci è un diritto, più che un dovere.

lunedì 14 aprile 2014

Più Brindisi che Turris, ma non basta

Ci sono situazioni che si evolvono. E squadre che rientrano nel pieno del gioco, nel vortice della battaglia. Apparse, ad un certo punto, ragionevolmente lontane dalla storia di un campionato che stringe e che, domenica dopo domenica, seleziona sempre più e, invece, ancora arruolabili nel discorso dei playoff. Cioè di quello strumento utile per assicurarsi, chissà, una promozione di scorta. Il Brindisi è una di quelle squadre ripescate dal gioco un po’ perverso del girone appulocampano di quinta serie. E lo è pure la Turris: che, anzi, la mancanza di continuità delle altre big del torneo ha saputo recuperare persino nella corsa alla prima piazza. Da non credere: ma vero. Turris e Brindisi si salutano a Torre del Greco: e non c’è soluzione all’eventuale sconfitta. Per entrambi. Concetto sùbito assai chiaro ai campani, in gol molto presto, dopo otto minuti. Forse più pronti, o più spendibili nell’immediato, i corallini creano movimento all’interno dell’area adriatica, mentre l’apparato difensivo della formazione di Chiricallo si blocca ed assiste alla scena del vantaggio della gente di casa. L’atteggiamento di partenza di Gambino e soci è, nello specifico, difettoso: ancora una volta, peraltro. Ma, di lì in poi, c’è più Brindisi che Turris: sin dalla metà della prima frazione di gioco, si intravede una certa frenesia. E pure una certa dose di coraggio: mancata troppe volte, invece, nelle trasferte precedenti a questa. Kamano rintuzza, Pollidori spinge e Ancora sfugge: solo che il sigillo del pari non arriva. Il rovescio, l’ennesimo rovescio lontano dall’erba del Fanuzzi, finisce così per complicare il progetto: anche i playoff si allontanano sensibilmente, malgrado non sia ancora ufficialmente finita. Appena chiamato a spendersi un po’ più e un po’ meglio, però, l’organico si è puntualmente inchiodato: e questa è una verità inconfutabile. Al di là dei condottieri (con Ciullo e con il nuovo coach) e dei moduli utilizzati sin qui. Segno inequivocabile di un gruppo mai maturato sino in fondo, diciamo pure incompiuto. Lo pensa patron Flora, lo sottoscrive Chiricallo, lo sospettiamo tutti, da tempo. Adesso, a traguardo virtualmente compromesso, possiamo ufficializzarlo: senza timore di smentita. Il campionato, in occasioni come queste, non mente.

mercoledì 9 aprile 2014

Barletta, un anno sprecato. In tutti i sensi

Non è un torneo particolarmente affascinante, quello della terza serie nazionale. E conosciamo ampiamente le cause alla radice dell’effetto: retrocessioni bloccate, sequenza massiccia di match inutili, caso-Nocerina e altro ancora. Vero, la rincorsa del Lecce alla prima piazza, ad esempio, offre interesse nuovo e adrenalina di riserva. E la corsa ai playoff è sempre viva. Ma queste sono storie che animano la zona più nobile della classifica e che, di conseguenza, non coinvolgono tutta la popolazione affezionata al girone meridionale della C1. E, infatti, adesso ci preme di parlare dell’altra metà del mondo e, innanzi tutto, del Barletta. Che su queste colonne – colpevolmente, magari – abbiamo un po’ trascurato, in questi ultimi tempi. Primo, perché – appunto – questo è un campionato senza anima, che ci affretteremo a dimenticare. E, secondo, perché quello che avevamo da dire, sostanzialmente, è stato già scritto. Il campionato, cioè, avrebbe dovuto rappresentare (per la società e, dunque, per la piazza) la palestra ideale in prospettiva futura. Una palestra in cui guardarsi attorno, preparare la nuova stagione e, soprattutto, costruire le basi per un futuro un po’ più saldo. Puntando, ad esempio, sulla gioventù: magari proveniente dal proprio settore giovanile. Operazione, per la verità, in parte riuscita (parliamo di Guglielmi, ovviamente). Questo torneo, per capirci, avrebbe dovuto rappresentare il segmento di transizione tra ieri e domani. Anche se ricordiamo benissimo gli appetiti dell’ambiente e certe dichiarazioni di massima, indirizzate verso la partecipazione ai playoff. Che, tuttavia, la caratura dell’organico aveva – sin dall’avvio della stagione, cioè la Coppa Italia – escluso. Diciamo così, allora: a Barletta questi mesi sono stati utilizzati male. Anche perché un’ambiguità di fondo ha finito con il corrompere i rapporti tra il club e la sua gente, da sùbito. Perché il presidente Tatò si è dimesso presto, stanco di assalti verbali e contestazioni. Perché il numero uno della società si è defilato, rimanendo comunque ai margini: un po’ dentro, un po’ fuori. Perché la fiducia tra le parti si è incrinata, per sempre. Perché la distanza tra l’ormai ex allenatore (Nevio Orlandi, silurato da poco) e la tifoseria si è allargata eccessivamente, nel tempo. Perché la differenza di pensiero tra il plenipotenziario Martino (esautorato pure lui) e l’ambiente si è deteriorata assai. E per tanti altre motivazioni. Certo: il pubblico del Puttilli e la città, in generale, hanno sopportato a fatica la programmazione minima. O, se preferite, mal digerito il cambio in corsa di un progetto mai totalmente chiaro. Traditi, probabilmente, da quel vortice di umori che, spesso, fa deragliare qualsiasi pianificazione. Però, e uno dei problemi più insidiosi è proprio questo, brucia – e non poco – la prospettiva o la certezza dell’umiliazione. Umiliazione, ad esempio, sono quei sei gol sofferti ultimamente di fronte al Benevento, che poi hanno causato la deflagrazione in un contesto già precario, sintetizzato con una contestazione popolare rumorosissima e, infine, il defenestramento di Orlandi e Martino (a proposito: per stanchezza o per altro, la società ha gestito la situazione con qualche esitazione). Mentre, sullo sfondo, si agitavano (e si agitano ancora) gli spettri del fallimento: perché il club è sempre aperto a nuovi investitori (a costo zero, ripete Tatò), ma i possibili acquirenti dimenticano di formalizzare una proposta concreta. Dall’umiliazione, intanto, nasce il disagio. Dal disagio, sfociano i rancori. E, dai rancori, sboccia l’intransigenza della parte più calda del tifo. Quello che è accaduto proprio domenica, cioè, è assolutamente al di fuori del normale e della logica. Il Barletta gioca (e perde, ma non è una novità) a Pontedera. Nel corso della gara, si infortuna e perde conoscenza il capitano, Fabrizio Di Bella (diagnosi: trauma cranico): e, allora, proprio dalla curva occupata dai sostenitori del Barletta, si alza per tre volte un coro becero, che al ragazzo augura il peggio. E’ il segnale di un punto di non ritorno già toccato. Ed è, soprattutto, l’ufficializzazione di un anno sprecato. Alla fine del quale, invece di raccogliere qualcosa, occorrerà seminare. Nella migliore delle ipotesi, ovviamente.

martedì 8 aprile 2014

De Luca e l'improrogabile epilogo

Il derby con il Taranto è perso. E, con il derby, anche ogni oggettiva possibilità di promozione. Almeno quella in prima battuta. Perché, se non altro, la battaglia per inserirsi nella griglia dei playoff continua. Malgrado, adesso, i desideri del Monopoli non siano affatto blindati (Francavilla e Brindisi inseguono e sperano ancora). O tutelati: né dal calendario (gli adriatici, ad esempio, domenica riposano e poi incontreranno il Marcianise), né dal nuovo profilo psicologico del gruppo, adesso obbligato ad assorbire in fretta l’ultima mazzata e, quindi, a reagire. Sì, il derby si consuma senza gloria e l’ambiente monopolitano deglutisce molto male il responso del campo. Scagliandosi soprattutto sul condottiero della squadra, ritenuto il responsabile principale della prima caduta stagionale al Veneziani: per la formazione proposta all’inizio della sfida, più che per l’atteggiamento speso sul campo nella seconda parte della gara. Claudio De Luca, oltre tutto, al novantesimo dribbla l’appuntamento rituale sotto la curva. E il particolare non sfugge agli affezionati più intransigenti: anche perché l’episodio si nutre di qualche precedente che ha contribuito, nel recente passato, ad allontanare le posizioni del tecnico di Castellana da quelle della tifoseria. Che, peraltro, tributa alla squadra applausi sinceri. Questo passaggio, in realtà, ratifica lo sgretolamento di un rapporto già abbondantemente deteriorato. E che la situazione caotica venutasi a creare dopo la partita di Brindisi ha abbruttito. De Luca, inoltre, finisce per scontare le asperità di altre contingenze, come il diverbio avvenuto  proprio domenica scorsa in tribuna tra un suo parente stretto e alcuni supporters. Di certo, tuttavia, nella mattina di ieri si sparge la voce delle sue dimissioni: ma chi conosce un po’ il carattere del tecnico, fatica a crederci. Di fatto, però, la società decide di intervenire compiutamente: e, dal summit serale, sempre di ieri,  scivola una notizia abbondantemente prevista. Le strade si separano. E, ufficialmente, si tratta proprio di dimissioni: anche se resta forte la sensazione di una motivazione di comodo. Esonero oppure no, comunque, cambia poco. L’epilogo, alla piazza, è gradito. Forse pure inutile, ma forse no. Perché l’incompatibilità ambientale si è fatta, giorno dopo giorno, sempre più pressante. Perché, se ben sfruttato, il cambio di panca (arriva, nel frattempo Elio Cocco, sin qui responsabile della formazione Juniores) potrebbe inaugurare, in anticipo sui tempi, la pianificazione della stagione che verrà. E soprattutto perché, ad un mese dal traguardo, il club comincia seriamente a temere anche l’esclusione dall’appendice dei playoff: un accadimento che, oggettivamente, si trascinerebbe appresso il sapore del fallimento. 

Foggia, è festa

Giglio utilizza come sa e come deve il pallone giusto, il Poggibonsi si arrende e il Foggia acquisisce la certezza dell’aritmetica. Adesso, l’ammissione alla futura C unica è ufficiale. I xxx punti, ormai, sono inattaccabili: con tre giornate di anticipo. La classifica potrà consolidarsi ancora (la Casertana e il Teramo viaggiano una sola lunghezza sopra), oppure deteriorarsi un po’ (il Messina è due punti dietro, l’Ischia tre): nella peggiore o nella migliore delle ipotesi, però, non cambierà granché. Allo Zaccheria c’è atmosfera di festa e la festa può cominciare. La formazione di Padalino si affretta ad archiviare la pratica, copre il campo con decisione, detta il gioco e i ritmi, governa palla e partita e, infine, colpisce. L’opposizione dei toscani è ampiamente gestibile e il risultato non traballa mai. Tre punti e via, la tensione può sciogliersi nella grazia della promozione. Il fallimento e l’affossamento tra i dilettanti sembrano spettri lontani. Nello spazio di dieci mesi, in Capitanata si sorride per la seconda volta di sèguito. Prima il ripescaggio in Seconda Divisione, escamotage burocratico per aggirare un’altra stagione di confinamento in quinta serie e per dribblare il fastidio di concorrere, quest’anno, con troppe pretendenti al salto di categoria. E, quindi, l’affermazione sul campo: probabilmente, meno faticosa del previsto, eppure non meno dispendiosa, in termini di investimento e di energie nervose. Quanto basta per recuperare il terreno perduto dopo il fallimento del vecchio club di Casillo e per ricollocare il blasone in un angolo meno angusto. Passando per un resettaggio malinconico nelle modalità, ma tecnicamente utile. Il Foggia, in meno di due anni, è sostanzialmente risorto, azzerando i passivi di un tempo e riacquistando la dignità. Ricostruendosi un’immagine e impalcando le fondamenta per affrontare un futuro più solido. Ma, soprattutto, ricostruendo i rapporti con la città e la tifoseria. Non senza attraversare qualche momento di smarrimento e di fibrillazione. Non senza temere di inciampare sugli ostacoli di sempre, che sono propri dell’espressione calcistica di una realtà socialmente confusa ed economicamente debole. Non senza aggirare con astuzia qualche difficoltà di percorso: puntando anche sul coinvolgimento concreto della tifoseria, nel momento di maggior bisogno. Come quando servì promuovere una sorta di colletta, per garantirsi la fidejussione da allegare alla domanda di ripescaggio. Al momento in cui, cioè, il club decise di far sottoscrivere alla sua gente l’abbonamento per tre campionati di fila, introitando un po’ di contante. E, infine, non senza ricorrere al sacrificio personale dei suoi finanziatori (Franco Lo Campo, immediatamente in coda al match di domenica, ha quantificato in un milione le uscite certificate per guadagnarsi la terza serie). Foggia e il pallone, intanto, si riappacificano. Stringendosi attorno ad un allenatore che, nella foggianità, sembra aver coniato il proprio marchio di fabbrica e ad un organico più pratico che illusorio, compatto ed affamato, motivato e sostanzialmente costante, nel rendimento. Malgrado un avvio di campionato affaticato e osteggiato da amnesie difensive e dai tanti sistemi di gioco che si sono inseguiti. E, perché no, abbracciando l’intero organigramma societario, che - anche a dispetto delle apparenze - nel doppio salto ha sempre profondamente creduto. Puntando tutto (e rischiando non poco) sull’onerosa pratica di ripescaggio, l’estate scorsa. Operazione, quella, dai risvolti oscuri e pericolosi: ma, in definitiva, anche e soprattutto una scommessa vinta sugli scettici, noi compresi.