All’improvviso, ma con prevista puntualità, la
situazione societaria del Taranto si ingarbuglia, si intorpidisce. Ma,
contemporaneamente, si evolve. Abbastanza velocemente, pure. La vecchia
struttura societaria, quella che - in sostanza – ha traghettato il pallone dei
due Mari dal momento dell’ammissione alla serie D sin qui, sarebbe stata
disposta a perseguire il proprio progetto di consolidamento delle fondamenta
del club, che passava attraverso due punti fondamentali: il ripianamento dei
conti (mancano, si dice, duecentocinquantamila euro per saldare le vecchie
pendenze) e l’alimentazione delle ambizioni. Per la quale, va aggiunto, avrebbe
gradito nuovi contributi, nuove energie: quindi, ulteriori investitori.
Parallelamente, peraltro, altri soggetti si sarebbero (anzi, si sono)
avvicinati: da Cerruti, attuale patron dell’Agropoli, ai fratelli Campitiello.
Nomi, questi, che hanno finito per ingolosire la piazza. Irruviditasi, così,
nei confronti del presidente Nardoni e del suo vice (e socio forte) Petrelli:
perché, forse, simboli di un passato prossimo senza risultati sportivi
tangibili. O perché prudentemente lontani dall’idea di presentare la
fidejussione che dovrebbe accompagnare l’ipotetica richiesta di ripescaggio in
terza serie (niente affatto certa, per la cronaca). Di fatto, però, parte
dell’ambiente jonico avrebbe ultimamente delegittimato e sfiduciato i due
dirigenti. Che, un po’ offesi, si sono praticamente disimpegnati, in attesa di
ulteriori novità. Accelerando il processo di rinnovamento. Ma, nel contempo,
aprendo un’eventuale crisi societaria, se la trattativa con la famiglia
Campitiello – oggi considerata molto avviata e destinata a soluzione felice -
dovesse saltare, per un motivo o per un altro. Fermiamoci, tuttavia, alle
certezze. E una certezza è questa: il maggior investitore del gruppo uscente,
ovvero Petrelli, ha dribblato ogni problema presente e futuro e qualsiasi
complicazione, cedendo (gratuitamente, giura) le sue quote alla Fondazione
Taras. Scendendo, in questa maniera, dalla giostra delle possibilità. E
trascinandosi emotivamente Nardoni. Il primo e il secondo, intanto, potranno
non piacere (o non piacere più) alla Taranto che tifa: ci può stare. Però, sarà
anche giusto ricordare che proprio Petrelli e Nardoni hanno saputo garantire il
minimo indispensabile: cioè la dignità e la sopravvivenza del club. Che, poco
più di un anno fa, non possedeva neppure la casa, ovvero un campionato a cui
partecipare. Spingerli ad abdicare non è stato un gesto di grande riconoscenza,
da parte di qualcuno (e la
Fondazione Taras non c’entra, per essere chiari): e pure
questo va sottolineato. Così come va sottolineato che, a queste condizioni,
Petrelli e Nardoni lasciano con eleganza. Rimediando un figurone, prima che la
questione si delinei del tutto. Ma, se qualcosa non dovesse funzionare, da qui
alla prossima settimana, nessuno potrà permettersi di rinfacciare qualcosa a
chi si, garbatamente, si è fatto da parte. Questo deve essere abbastanza
chiaro.
lunedì 23 giugno 2014
giovedì 12 giugno 2014
Bari, il successo oltre l'eliminazione
La piazza
è esuberante. Di fede, gente e colore. Il Bari attrae. Il Bari infervora gli
animi. Il Bari lotta lontano da casa, a Crotone. E il maxischermo, di fronte
alla Prefettura, dribbla la distanza. Dentro o fuori, in novanta minuti. O
centoventi: dipende. Ma il collettivo di Alberti e Zavettieri sa inquadrare il
match, carpirne l’essenza, scovare il momento giusto per schiodare lo zero a
zero che lo condannerebbe. Tre gol (a zero) fuori casa raccontano il magic moment della squadra, promuovendola
alla seconda fase dei playoff. E, per strada, la folla sente i traguardo,
quello della A, infinitamente vicino. Ma, di fronte, adesso c’è il Latina.
Doppia sfida: prima al San Nicola,
poi lontano dall’erba amica. Il primo round
si consuma in uno stadio ribollente: siamo vicini alle sessantamila presenze,
per una gara di B. Qui non si scherza. Ma non scherzano neppure i pontini,
sùbito pronti e in vantaggio per primi. Ma il cuore del Bari è grande. E la
reazione di Sabelli e soci ribalta il punteggio, che solo l’ex Ristovski, poco
prima del novantesimo, riesce a riequilibrare. A campi invertiti, ieri, il
match del responso definitivo. Che sorride al Latina. Un altro due a due: e la
corsa del Bari, imbattuto nei playoff, si interrompe alle porte della finalissima. La generosità della
ripresa non basta. E non è sufficiente neppure il gol di Polenta, quello del
vantaggio in dirittura d’arrivo. L’avversario si procura un penalty contestato
e poi completa il sorpasso. Galano, tuttavia, ci crede ancora e pareggia: ma,
ormai, è tardi. Tardi per sognare, ma non per esigere il rispetto della sua
gente e per pretendere gli onori del caso. Manca il premo finale, ma l’impresa
resta ugualmente. Salta la promozione, eppure lo spessore dell’obiettivo
centrato è incancellabile. Con l’energia della freschezza e la forza della
spavalderia, con molto orgoglio e parecchia dignità, questo Bari ottiene lo
stesso un traguardo preziosissimo: quello di riavvicinare la città al calcio.
Foraggiando motivazioni nuove, che verranno buone più avanti. Al di là del
risultato del campo, questo è un successo. Il suo successo.
domenica 8 giugno 2014
Lecce, sarà ancora C
Lecce e
Frosinone, di nuovo di fronte. Questa volta, però, la sfida (doppia) è
decisiva. Alla quale la gente di Lerda non arriva con la lucidità dei giorni
migliori. Eppure, essere in fondo alla strada è un distintivo di merito,
considerate le premesse. I ciociari, intanto, si prendono i favori del
pronostico e si presentano davanti al traguardo più tonici. Meglio strutturati.
La finale dei playoff è una storia che, tuttavia, la formazione salentina
sembra poter scalare: passando a condurre il match di andata, in Puglia (finirà
uno a uno) e pure quello di ritorno (i laziali si impongono tre a uno,
conquistando la B).
Alla distanza, cioè, il Frosinone si fa preferire: per la migliore gestione
delle situazioni, per la preferibile condizione mentale e per un miglior
approccio con le tensioni tipiche di un incontro così delicato. Il Lecce,
invece, si perde troppo presto: sull’erba di via del Mare come al Matusa. Dove finisce il match in
inferiorità numerica. E dove, dopo il novantesimo, si lascia tradire dalla
rabbia e dalla frustrazione. Onestamente, l’avversario produce di meglio e di
più. E, nell’arco delle due partite, legittima la propria superiorità. La
botta, così, è ancora più dura. Soprattutto in prospettiva futura. Dunque: il
Lecce fallisce la promozione per la seconda volta di seguito. Scoprendo quanto
è arduo risalire. E quanto è scomodo combattere con il dovere di imporsi.
Aprendo, in un certo senso, una crisi tecnica e societaria. Mancati introiti a
parte, la famiglia Tesoro dovrà, per esempio, cominciare a mettere in conto il peso di
qualche vecchia critica sopita che, vedrete, affiorerà nuovamente. E a
considerare il malcontento della piazza. Badando, contemporaneamente, a
rifondare l’organico. Che, tra partenze scontate oppure no (Miccoli sta
salutando, altri hanno ragionevolmente concluso l’avventura) e pedine da
restituire al mittente, dovrà necessariamente essere rivisitato con
intelligenza e perizia. Non sarà un’estate semplice, per capirci. Occorreranno
scelte nette, convincenti. In tempi brevi, ovviamente. Senza contare che andrà
risolto velocemente anche il problema legato alla panchina: Lerda potrebbe
rimanere, ma la conferma non sembra, al momento, neppure automatica. Ma,
innanzi tutto, si sta creando attorno al Lecce una certa atmosfera di
prostrazione, di pessimismo. La risalita, creduta un atto dovuto o una pura
formalità, rischia di diventare un gioco perverso, una maledizione. E Lecce, ormai
disabituata alle logiche della terza serie, rischia di perdersi dietro la
delusione, attorno alle difficoltà che pochi avevano previsto. O che tanti
avevano trovato normale evitare.
sabato 31 maggio 2014
La favola del Bari e di Çani
Il calore della propria gente, appena ritrovato. L’ottimismo, rubato a
fatica tra spifferi di gelida incertezza. E una nuova società, sorta tra i
misteri di un’asta fallimentare e una corsa al rialzo. Il Bari aveva quasi
tutto: nuovi padroni, ancora non sappiamo distintamente quali, compresi. Ma
rappresentati da un personaggio di solida notorietà, ancorché contestato a metà
dell’opera: Gianluca Paparesta. Mancava soltanto il passaporto per i playoff,
un traguardo inimmaginabile prima e anche durante il campionato. Anche un mese
fa. Eppure, diventato obiettivo concreto, nel tempo. Perseguibile. Malgrado
tutto. Nonostante tanti fattori avversi. Ultima tornata di regular season, sognare si può. Ancora. Unico risultato utile, il
successo. E avversario ruvido, per questione di urgenze opposte: il Novara
assetato di punti. La squadra di Alberti e Zavettieri, però, marcia in
compagnia di cinquantamila fedeli. Silenziosi, distratti o lontani per anni. Ma
recuperati nel momento del bisogno, in quell’arco temporale che segna il
tramonto di un’epoca e l’alba di giorni nuovi. Cinquantamila fedeli tutti
assieme, oltre le reti di recinzione. Prima in fila, davanti ai tornelli. E poi
sui gradoni. Dove, si dice, non sarebbe transitato neppure un sospiro. O un
dubbio. Il Bari e la sua gente. Lo stadio che esplode, quasi. E, di fronte, un
avversario già condannato agli spareggi: prima di giocare. Ma il match è lungo
e neppure tanto facile. L’avversario resiste, anche se il Bari preme. Per
quarantacinque minuti. Anzi, l’avversario è subdolo. Intervallo, si riparte. E
il Novara passa e se ne compiace. Vedendo la salvezza diretta, addirittura. Ma
non è finita. Non può essere finita. La favola non può evaporare così. Perché
questa è la favola del Bari che non muore mai. Del Bari che reagisce, che non
si scompone, che urla e graffia. Edgar Çani è un albanese
arrivato in Italia assai giovane, nel millenovecentonovantuno, in un giorno che
nemmeno lui ricorda. Ma che è impresso nella memoria collettiva della gente di
Puglia, della gente di Bari. Il giorno della Vlora, quel barcone sovraccarico
di uomini e donne alla ricerca di un presente, ancor prima che di un futuro. Çani è un albanese accolto
da Bari e sùbito partito, direzione Umbria. Per diventare, più tardi,
calciatore. E per frequentare punti differenti della penisola: da Palermo a
Padova, da Piacenza a Catania. Ma passando pure per la Polonia. Che, però, Bari
e il Bari riacquisiscono, quasi per caso, nel mercato suppletivo di metà
stagione. Poche apparizioni, un po’ di panchina. Quindi, l’opportunità della
partita decisiva. Suo è il sigillo del pari. Suo è il gol del raddoppio. Quello
che prelude alla terza marcatura di Polenta, dagli undici metri, e al quattro a
uno definitivo e spettacolare firmato da Beltrame. A Varese,
contemporaneamente, affonda il Siena. E, dunque, è festa. Bari ai playoff: Dopo
una rincorsa frizzante. Dopo aver temuto i playout per mesi bui. Ma con lo
spirito di sempre. Con entusiasmo nuovo. E con una società pienamente
funzionante, soprattutto. E’ la favola del Bari. E anche di Edgar Çani. Ventitre anni dopo,
il favore è ricambiato.
venerdì 30 maggio 2014
Padalino, una scelta di testa
Tre anni
per disegnare un Foggia da B. La società ci crede. Pensando di riconsegnare le
chiavi del progetto a Pasquale Padalino, caudillo
di una squadra transitata con qualche difficoltà dalla serie D, ma approdata
(con innegabili meriti da ascrivere al club) prima nell’ormai estinta C2 e,
dunque, nella terza serie unica. Allenatore emergente, Padalino. E, dunque,
sufficientemente ambizioso. E ben considerato anche al di là del territorio
comunale: per un passato di discreto prestigio e per un presente interessante.
Amato, peraltro, pure dalla sua stessa gente. Che, magari, non gli ha neppure
risparmiato – prima, durante e dopo la rincorsa alla C – qualche critica
circostanziata. Spesso condivisa, dietro le scrivanie, da chi regge il Foggia.
Comunque, un foggiano. Un pezzo di Foggia, Padalino. E, probabilmente, anche
l’anello di congiunzione di questa macchina assemblata in fretta, due anni fa.
E ritrovatasi esattamente dov’era, prima del fallimento. In anticipo sui tempi.
Padalino, però, si rifiuta di continuare a guidare il Foggia. C’è la proposta
formalizzata dal presidente Lo Campo, che qualsiasi foggiano non scarterebbe
mai. Ma non l’approvazione del tecnico. Che, invece, lascia cadere la
trattativa: guardando oltre, chissà. Forse alla serie B, quella immediata.
Sembra che le richieste non manchino, del resto. Vedremo. Tre anni, per scalare
un altro gradino, sono troppi: o, almeno, così riusciamo a decifrare tra una
dichiarazione e un’altra. Padalino, probabilmente, non ama sprecare i giorni.
Oppure, questa forma di diniego è soltanto la più elegante tra quelle a
disposizione per giustificare le riserve su un progetto che, evidentemente, non
lo convince molto. Eppure, qualcosa ci suggerisce che Padalino, in fondo, non
sbaglia a lasciare l’incarico e a proseguire per suo conto, altrove. Perché
lascia da vincente. O da vincitore. Nel momento più felice della propria
avventura sulla panchina di casa. Dribblando il rischio e, quindi, preferendo
la comodità di un’altra sfida, lontano. Ma lasciando, dietro di sé, anche il
ricordo migliore. Scelta di convenienza, può darsi. Fredda e calcolata, può
essere. Una di quella in cui la testa prevale sul cuore. Ma tecnicamente e
tatticamente ineccepibile. I sentimenti, nel pallone, sono controproducenti,
troppo spesso.
giovedì 29 maggio 2014
Barletta, soluzione veloce
Chiarezza. Barletta e i barlettani
pretendevano esclusivamente chiarezza. E chiarezza è stata. Immediata, pronta
per l’uso. Le pratiche per il passaggio di proprietà del primo club cittadino
si delineano in fretta, nell’arco di pochi giorni. Roberto Tatò cede a costo
zero, come promesso. E cede un bilancio sano: cioè, senza debiti. Come più
volte vantato. Giuseppe Perpignano rileva soltanto gli oneri di gestione.
Accollandosi, oltre alle spese e agli ingaggi che verranno, anche il peso dei
contratti già stipulati. Nessun bluff:
né da una parte, né dall’altra. Altrimenti, la rapidità di esecuzione non si
spiegherebbe. Prendere atto di certi particolari è un dovere, innanzi tutto. E
onore all’imprenditore che lascia: stanco di delusioni e critiche, ma serio
sino in fondo. Il nuovo che avanza sembra persona pratica e motivata.
Perpignano conosce già il pallone: quello della serie D, quello del nord
(arriva da Rapallo, Liguria). Che, lo sappiamo bene, è altro mondo, altra cosa.
Però, ci mette sùbito entusiasmo e metodo. Allora, con solerte tempismo, ecco
pure il nome del tecnico e del diesse che lavoreranno sul Barletta, per il
Barletta: Marco Sesia e Marco Rizzieri. Anche loro arrivano da quell’universo
differente del calcio imbastito al settentrione: ma, intanto, è sin troppo
chiaro che la nuova società punti ad ottimizzare le settimane, a velocizzare
decisioni e strategie. La realtà quotidiana chiede, peraltro, molto di più. E
la managerialità va supportata ogni giorno da altre qualità. Ma a Barletta, per
il momento, non possono chiedere di meglio. Dal caos dell’incertezza all’agio
della tranquillità. E la certezza di potere difendere ancora la terza serie.
Tutto in poche ore. E’ andata proprio di lusso.
mercoledì 21 maggio 2014
Bari, sta cambiando il vento
Bari ha un’anima. E, tra i suoi percorsi fede, c’è anche il pallone.
Riscoperto velocemente al tramonto del regno dei Matarrese. Un’anima e pure un
cuore. Zittito dagli eventi più recenti, eppure pulsante. Ma anche una memoria:
di quello che il calcio, in riva all’Adriatico, ha rappresentato negli ultimi
cento anni. E una certezza: quello che il senso di appartenenza e il rapporto
bisettimanale con l’erba possono ancora rappresentare. E pure il Bari ha un’anima. Un’anima
giovane e entusiasta. E motivazioni a sufficienza per non accontentarsi: né di
una salvezza agganciata tra marzo ed aprile, né del semplice consenso popolare,
guadagnato proprio nel mezzo di una rovente emergenza societaria. Adesso, dopo il successo
rimediato sull’erba di casa di fronte al Cittadella nel posticipo del lunedì, davanti
a più di trentamila affezionati, è tutto ben chiaro. Nel capitolo che conduce
dritto ai playoff c’è spazio pure per la formazione gestita da Alberti e Zavettieri.
E come. Dalla quart’ultima piazza al quinto posto, nello spazio di mezzo girone
di ritorno: mentre, davanti, si apre il rettilineo che accompagna al traguardo.
Nessun inganno, è la verità: il Bari, ormai, vince regolarmente in casa e pure
più lontano. Schiaffeggiando la crisi con vivacità ed energia. E inaugurando,
in pieno maggio, il suo nuovo campionato, felice appendice delle sfide già
vinte: quelle contro la recessione e lo scetticismo. Nelle difficoltà, la
squadra si è fortificata, si è irrobustita. E si è migliorata. Giorno dopo
giorno. Alimentandosi, infine, del progressivo riavvicinamento del grande
pubblico, pronto ad assicurare un supplemento di calore e a trascinare
entusiasmi nuovi. E senza badare a quanto accadeva attorno oppure nelle aule
del tribunale, bypassando anche gli
spettri delle aste deserte: per convenienza, più che per disinteresse. Perché,
come raccontano le cronache più recenti, alla terza licitazione, accorrono
quattro gruppi imprenditoriali e quello coordinato da Gianluca Paparesta si
incarica infine di sistemare tante cose. All’improvviso, il Bari scopre di
potersi disegnare un futuro, creduto perduto. E di possedere, nel contempo, un
presente. Ancora tutto da scrivere. Ancora tutto da vivere.
martedì 20 maggio 2014
Grottaglie, festa doppia
Contro il Vico, tecnicamente neanche tanto male:
una di quelle squadre partite persino discretamente e poi risucchiate dalla
classifica, nel corso della stagione. Contro le sue stesse paure: che due soli
punti guadagnati in dieci match, gli ultimi disputati, avevano dilatato oltre
il limite della normalità. E contro troppi pronostici: tutti rigorosamente
chiusi. Per la natura del match (gara unica in campo avverso), per il gap psicologico (un solo risultato a
disposizione) e per quello scadimento strutturale e mentale accusato negli
ultimi tempi, in coda al momento di maggior vivacità. E apparso, ad un certo
punto, addirittura inarrestabile. Invece, il Grottaglie va a prendersi in
costiera quello che gli serve, il successo. E si regala un altro anno di serie
D. Il quattordicesimo di fila. I playout non ammettono amnesie. Ma, questa
volta, la formazione di Pettinicchio c’è: passando in vantaggio, abbastanza
presto, con Fumai, ripescato dopo molti giorni scanditi da un’indisposizione di
stagione. E senza concedersi allo scoramento, quando i campani pareggiano,
monetizzando una miscela di ingenuità e insicurezza di Prete. Ci pensa, alla
fine, Formuso: il sigillo vincente è tutto suo. Due a uno: non ci avrebbe
scommesso chiunque. Capolavoro di realismo, verrebbe da aggiungere. Senza
troppa enfasi, prestazione solida, pulita. L’Ars et Labor si ricompatta nel
momento essenziale: ritrovando stimoli, vigore, coordinate. Giocando da squadra
consapevole delle proprie prospettive, sicura del risultato che al novantesimo
la ricompenserà. E resistente al forcing
finale dei campani, ma anche ai sette minuti di recupero che sembrano voler
rimandare o zittire la festa. Ma la festa, prima o poi, esplode. Festa doppia.
Per la conservazione della serie D, prima di tutto: arrivata in ritardo sui tempi programmati. E, comunque, centrata. Ma pure per la
sopravvivenza del pallone a Grottaglie. Che, di fronte alla dura realtà dell’Eccellenza,
si sarebbe liquefatto. Potete crederci.
lunedì 19 maggio 2014
Taranto, fine della corsa
L’Arezzo non abbaglia. E non dispone neppure del campo, come
certe cronache tentano di raccontare. Semplicemente, attende: il momento ideale
per graffiare. E attende un bel po’: praticamente, una gara quasi intera.
Alzando i ritmi nell’ultimo quarto d’ora di gioco: dopo aver gestito il
traffico con una terza linea alta e un atteggiamento rispettoso. Non
rinunciatario: ma poco più che timido. Lasciando, però, poca manovra ad un Taranto
di per sé svuotato, fisicamente arrivato. La formazione di Papagni è stanca:
s’intuisce da sùbito. E, agli albori del secondo tempo, l’energia è già
evaporata. Tre gare in una settimana si pagano. E soprattutto, corrodono quei
supplementari del mercoledì precedente, ai quali l’ha obbligato l’ostico
Monopoli. Ciarcià, è vero, rientra da una lunga vacanza. E riappare nell’undici
titolare anche Molinari. Mentre Clemente, in coda alla lunga squalifica che
l’ha fermato, si accomoda soltanto in panca. Con Mignogna. Ma, evidentemente,
non basta. Troppe pedine accusano la fatica di una stagione intensa. E poi, in
mezzo al campo, i problemi sono noti: mancano ordine e fantasia. Così, il primo
match della terza fase, quella dei playoff allargati su scala nazionale, è
immediatamente scomodo. L’Arezzo, dicevamo, non si apre e non si abbassa,
fluttuando sull’erba. Ma qualcosa tenta ugualmente. Nulla di avvincente,
tuttavia: perché, davanti, i toscani non sembrano troppo maliziosi. Però il
Taranto, che può appoggiarsi sulla spinta del pubblico amico, pressa zero e
conclude pochissimo. L’unica occasione seria càpita a Balistreri, che segna: offside, dice il direttore di gara. Poi,
più niente. I calci di rigore, in assenza dei tempi supplementari, appaiono
l’epilogo più ovvio. La gente di Papagni li attende, come una liberazione. Ma
l’Arezzo, finalmente, capisce che può osare. E, a quattro minuti dal
novantesimo, il mediano Carteri sistema la questione. Amaranto alle semifinali.
Il cammino del Taranto, invece, si interrompe. Complicando la pratica
burocratica per la domanda di ripescaggio. Che, comunque, dovrebbe essere
inoltrata lo stesso (converrebbe, effettivamente). L’inclusione alla fase
successiva, però, avrebbe pesato un po’: e questo è chiaro, sin da ora. Ma,
probabilmente, questo organico ha ottenuto dalla sua stagione strana e
discontinua quello che sarebbe stato logico aspettarsi. E niente di meno. Anzi,
forse qualcosa in più. Occorre farsene una ragione, in riva ai due Mari.
venerdì 16 maggio 2014
Foggia, il progetto si rafforza
Foggia smaltisce lentamente l’euforia. La sua legittima euforia: la serie
C, la nuova serie C, è oggettivamente un approdo fondamentale. Innanzi tutto,
per certe premesse di neanche due anni fa (fallimento e inserimento tra i
Dilettanti). Ma anche per aver dignificato come merita la progettualità
ambiziosa eppure composta del gruppo di comando del club: sempre realista, ma
mai disattento agli input della
realtà. Cioè, puntualmente presente. E quasi sempre sotto traccia. Oppure, il
lavoro concreto e lungimirante di Padalino e Di Bari: abili nell’assemblare
esperienza e rampantismo dello scacchiere (tutti ci provano, a qualsiasi
latitudine, in ogni categoria: pochi riescono, se facciamo due conti). E poi
sì, è chiaro: la serie C, oggi come oggi, non può non coinvolgere una piazza
come quella di Foggia. Forse, anche perché stiamo tornando a riassaporare
quelle atmosfere della terza serie di un tempo. Dovrebbe essere, quello che sta
nascendo, un campionato rivalutato dalla rivisitazione del Palazzo. Più che dal
punto di vista tecnico, da quello dello spessore mediatico. Un torneo con un
peso specifico maggiore, diciamo così. E dove il blasone della concorrenza non
mancherà. Anzi. Dopo l’euforia, però, viene anche il momento di riunire i
concetti di base e di razionalizzare le idee. La società dauna, e di questo va
dato atto, non ha sciupato troppe settimane. Riallacciando immediatamente il
filo del discorso interrotto dalla festa. E ripartendo il piano della scalata
alla B nelle prossime tre stagioni. Dalla prima riunione programmatica postpromozione, vengono fuori alcuni
numeri: è previsto lo stanziamento di un milione e ottocentomila euro per la
stagione che verrà. Due milioni e mezzo per quella successiva. E, come prevede
la strategia dell’investimento crescente, il Foggia conta di destinare tre
milioni e duecentomila euro per il 2016/2017. Tra parentesi, non pochi, oggi
come oggi. Il disegno, ovviamente, potrà tenere di conto di alcune variabili,
come lo sfruttamento delle risorse del settore giovanile (che andrà, però,
rafforzato) e, soprattutto, dell’accostamento di altri imprenditori interessati
a fare calcio in Capitanata (una volta latitavano: e adesso?). Ma le buone
intenzioni sembrano, almeno, garantite. Sin da ora. Aggiungiamo, anzi, che le
programmazioni migliori sono quelle che si pianificano presto e si sviluppano
in prospettiva. Tre anni sono un arco di tempo appropriato e una previsione
responsabile, seria. Di più: piace soprattutto quella chiarezza di fondo nelle
cifre. Che spiega, da sùbito, la soglia di risorse entro la quale occorre
operare. E oltre la quale non si può navigare. Affinché tutti sappiano, con
adeguato anticipo, qual è il raggio d’azione del club. E per tracciare - alla
città e alla tifoseria - il giusto binario di percorrenza. Giusto per non
generare, in un domani più o meno prossimo, inutili illusioni.
giovedì 15 maggio 2014
Il Monopoli si ferma, il Taranto avanza
E, infine, la finale dei playoff del raggruppamento
appulocampano di D si gioca a Taranto, nella sua sede naturale. E a porte
aperte. Non tutte, per la verità: quelle della Curva Nord, la casa della parte
più calda del tifo jonico, rimangono chiuse. Chissà poi perché, dal momento che
le cattive azioni, prima e durante l’ultimo match, si sono consumate anche
altrove. Iin tribuna, per intenderci. La squalifica dell’impianto, però, viene
cancellata dal secondo grado di giudizio, in meno di ventiquattr’ore. Proprio
mentre viene pubblicizzato il campo neutro, quello del Fanuzzi di Brindisi. Ingaggiato, peraltro, dopo aver ristretto
fortemente i tempi e aver forzato il regolamento (settanta chilometri di
asfalto non sono cento, come prevede la norma originaria). Ma così è, in
Italia. E conviene abituarsi. O rassegnarsi. La finale trafigge un mercoledì
autunnale di maggio e dribbla il Giro d’Italia che riparte proprio tra i due
Mari. Di qua il Taranto, più protetto e discreto, schierato senza l’assillo del
successo tassativo. Di là il Monopoli, più dinamico e rapido, ma obbligato a
forzare il destino di un match che non gli consente neppure di pareggiare. La
formazione di Cocco è più animata dall’urgenza e si sente: la gente di Papagni
si spaventa un po’ e, allora, provvede a irrobustirsi in entrambe le fasi,
alzando il quoziente di aggressività. Molinari è acciaccato e agli jonici viene
a mancare il terminale naturale. Gli adriatici, di contro, cominciano a perdere
un po’ di palloni importanti, ma concludono più spesso (e senza precisione) in
virtù di una manovra più diretta. Il gol, tuttavia, lo trova il Taranto, con
l’ex Balistreri, poco prima dell’intervallo. E la marcatura spacca la partita,
indirizzandola sino al novantesimo. Anche perché, nella ripresa, la migliori
intenzioni del Monopoli si slabbrano e la pressione non si evolve. Mentre, nel
tempo, il Taranto disciplina correttamente la gestione delle situazioni. Ma,
proprio al novantesimo, Laneve (il ragazzo entra un’altra volta a gara in
corso, segnando) sbuca al posto giusto e nel momento giusto, aprendo la strada
dei supplementari. Dove il Monopoli arriva con ossigeno limitato e il Taranto,
forse, ancora più stanco. E dove la squadra di Papagni riesce comunque a
conservare il vantaggio di partenza, con sacrificio e sudore. Il Monopoli si
ferma, ma credendoci sino in fondo, E rimediando una gran bella figura. Il
Taranto avanza, spendendo molto e cominciando a temere il nuovo impegno, ormai
vicino (domenica prossima). Il verdetto è quello più pronosticato. E, crediamo,
anche complessivamente credibile. La seconda piazza in regular season di Prosperi e compagni, di fronte alla quarta raggiunta
da Lanzillotta e soci, significa pur qualcosa. E qualcosa valgono anche i tre
scontri diretti complessivi: in cui il Taranto rimedia sempre il risultato. L’ultimo
dei quali consente di sperare ancora in una promozione di scorta. Sempre che la
società bimare confermi la solidità economica che vanta di possedere. Piaccia o
no, il ripescaggio è una questione di campo, ma anche e soprattutto di
scrivania.
martedì 13 maggio 2014
Lecce, pronostico rispettato
Partono i playoff, anche quelli di terza serie. E il Lecce risponde, da
sùbito. Il primo step è superato, ma non senza apprensioni. La qualificazione
al turno successivo è garantita solo dopo i calci di rigore: a via del Mare
scende il Pontedera e il pareggio maturato nei tempi regolamentari e in quelli
supplementari è insufficiente. Il terzo posto della regular season, del resto, concede qualche vantaggio, come il
diritto a giocare sul proprio terreno di gioco: ma il passaggio del turno va
pure guadagnato, in qualche maniera. Traducendo, si soffre. Com’è pure normale
che sia. Il pronostico riceve il rispetto che pretende, però i toscani
convincono complessivamente di più, sul piano della manovra. E, anzi, la
formazione di Lerda deve aggrapparsi alla performance
positiva del suo guardasigilli Caglioni, che blocca un paio di soluzioni
toscane proprio in prossimità del novantesimo: quando, cioè, sarebbe venuto a
mancare il tempo per rimediare. Il Lecce è sbiadito, un po’ svagato. E,
probabilmente, l’atteggiamento tattico (una sola punta, Zigoni) finisce per
inviare alla squadra un messaggio annacquato. Il Pontedera gode, ad un certo
punto, di troppo campo e, più tardi, un calo fisico di Bogliacino e soci non
agevola il compito. Ma, soprattutto, il problema sembra mentale: magari, è
proprio quel vantaggio dettato dalla classifica ad irretire il gruppo. A
limitarlo. A frenarlo. E anche la consapevolezza di essersi cuciti addosso un
finale di stagione particolarmente brillante allontana l’essenza della realtà. Ad
ogni modo, il Lecce bello ed autorevole di un mese addietro si affloscia
all’improvviso, quando sarebbe invece opportuno offrire qualcosa in più.
Adesso, però, il format degli spareggi
per la seconda piazza si modifica, passando dalla gara unica al doppio
confronto (domenica, ad esempio, si viaggia per Benevento e poi ci si ritrova
nel Salento). Modellando una situazione strana, dal punto di vista estetico e
logico: perché un calendario caotico non giova al pallone, soprattutto di
questi tempi. Ma, chissà, persino conveniente per il Lecce. Che potrebbe
inconsciamente avvertire il bisogno di doversi giocare la promozione con le
pari opportunità. A mente sgombra.
lunedì 12 maggio 2014
Playoff, derby di Puglia
Tempo di playoff. E’ il momento di esibire gambe e testa. E il Taranto,
mentalmente, è più pronto del Marcianise, protagonista nella regular season, ma un po’ distante e non
eccessivamente convinto nella lotteria degli spareggi di fine campionato. Che,
forse, serviranno e, forse, no: ma che, intanto, andrebbero affrontati con più
intensità e maggiore presenza scenica. Eppure, ad un certo punto del match, i
casertani scoprono di poter rincorrere il risultato e, con un uomo in più
(Pulci si fa espellere troppo presto: ancora una volta, la gente di Papagni si
lascia tradire dalla foga, se non dalla tensione), intensificano il ritmo. Lo
svantaggio di un gol, a quel punto, non sembra affatto incolmabile: anche
perché il Taranto ha ormai ceduto troppo campo, avvertendo i sintomi di un
timore diffuso. Ma la manovra della formazione di Fogliamanzillo si sfilaccia
spesso sull’onda di una brillantezza ormai perduta. E, oltre tutto, l’imperizia
del guardasigilli campano Imbimbo regala agli jonici un altro gol, il terzo:
quello che praticamente chiude la sfida. Così Molinari e soci, non senza
soffrire qualcosa, raggiungono nella finale del girone appulocampano di D il
Monopoli, che nel frattempo, si libera della Turris. Ma il responso è,
fondamentalmente, corretto: il Taranto offre qualcosa di più dal punto di vista
della quantità. Malgrado le assenze copiose: tra le quali spicca quella di
Ciarcià, l’unico centrocampista dell’organico sostanzialmente in grado di
assicurare idee e un po’ di qualità. Che due mediani di filtro e fatica come
Muwana e Menicozzo, ovviamente, non possono garantire. Allora, è soprattutto
dalle corsie esterne (piacciono Mignogna e Migoni) che spuntano le cose
migliori. Anche se, poi, la manovra lievita per una ventina di minuti e non di
più: appena il Taranto, cioè, si dota di maggior rapidità e aggressività. E
appena i suoi singoli scavano la differenza (storia vecchia). La storia,
dunque, continua. E si torna in campo prestissimo: mercoledì, per la
precisione. E in campo neutro (e a porte chiuse). Perché, intanto, il giudice
sportivo squalifica lo Iacovone,
turbolento prima e durante il match. Nonostante non sia ancora chiaro se i
grossi petardi esplodono all’interno o all’esterno della struttura (poco
importa: la responsabilità oggettiva del club permane in entrambe le ipotesi). Però,
il derby con il Monopoli, tornato compatto e lucido al momento decisivo (cinque
gol in trasferta fanno morale), sembra voler finalmente premiare il calcio
pugliese di quinta serie, punito dalla maggior concretezza del Matera. Ma,
soprattutto, la squadra che saprà imporsi tecnicamente. Certo, è il momento di
sfruttare testa e gambe. Ma, a parità di motivazioni (che a jonici e adriatici
non mancano, oggettivamente) potrebbe e dovrebbe decidere il calcio prodotto. Almeno
per una volta. Ci sono tutti gli ingredienti per crederlo: e la cosa non ci
dispiace.
mercoledì 7 maggio 2014
Longo, la svolta del San Severo
I dati mentono difficilmente. Dei numeri occorre
tenere conto. E le statistiche, nel caso specifico, raccontano chiaramente: con
l’arrivo di Emilio Longo sulla panca, il San Severo si ricrea, si ravvede, si
fortifica. Immediatamente dopo il quattro a zero di Monopoli, la formazione
dauna è incerta, fragile, moralmente fiaccata. L’involuzione sembra radicale.
La classifica sprofonda e il primo responsabile tecnico della stagione, Danilo
Rufini, viene accantonato. Persino ingiustamente, in quel preciso momento
storico: perché l’organico, pesantemente saccheggiato tra il girone di andata e
quello di ritorno, non sembra oggettivamente assicurare robustezza e
alternative. L’avvicendamento, però, è tonificante. E non occorre neppure
attendere troppo. La squadra reagisce, migliora l’approccio con ogni gara, cresce
per intensità e densità, produce e realizza di più, acquisisce dimestichezza
con il risultato e, abbastanza rapidamente, riemerge dal fondo della
graduatoria. Il San Severo, cioè, un mese prima della conclusione della regular season, è ragionevolmente al
riparo da complicazioni fastidiose e, malgrado la matematica conforti solo
all’ultimo turno, la salvezza virtuale arriva persino in anticipo sui tempi. L’ultimo
tassello del puzzle è il pareggio
maturato di fronte al Francavilla di Lazic, sul neutro di Lucera, la casa di un
anno intero: un impegno di pura formalità. Ma sono i trentasette punti
collezionati a trascinarsi il sapore dell’impresa. Forgiata da un atteggiamento
evidentemente più positivo e propositivo e dal lavoro applicato prima sulle
teste e poi sulle gambe della squadra: dotata di risorse tecniche limitate, ma
anche di tempra. La salvezza, senza neppure transitare dai playoff, è
oggettivamente un traguardo inatteso. E, ad un certo punto del cammino,
inimmaginabile. Anche per quell’antipatica controindicazione che si è rivelata
l’indisponibilità, per tutta la stagione, del proprio terreno di gioco: che,
ora, diventa la condizione essenziale per poter imbastire il progetto che
conduce al prossimo torneo. Prima il Ricciardelli,
poi la rielaborazione dell’organico: la lista delle priorità è già pronta. Mentre
il gestore della panchina sembra, sin da adesso, un punto fermo: Longo si è già
guadagnato la riconferma. Se vorrà rinsaldare il rapporto con il club, dovrà
soltanto comunicarlo.
martedì 6 maggio 2014
Martina, game over
Nelle sfide che tracciano un segno, il Martina nicchia e si arena. Così nel corso di
un campionato speso a rimorchio dei dubbi e delle ansie. Così nell’atto
conclusivo di una regular season che, a questo punto,
non presuppone appendici. A Messina si gioca per due risultati: il successo,
che servirebbe a catturare il miglior piazzamento nella griglia dei playout, e
il pareggio, utile ad entrare nel circolo delle quattro società che si giocano
l’unica posto rimasto nell’istituenda C unica. E, invece, oltre lo Stretto
schizza l’unico score indigesto. La
sconfitta matura ad una manciata di istanti dalla chiusura del match e della
stagione: dunque, quando non è neanche più possibile riparare. E, proprio per
questo, brucia tanto di più. Soprattutto, se proviamo ad analizzare
sommariamente la partita, perché la formazione di Tommaso Napoli conduce
temporaneamente con una rete di vantaggio, dopo aver ribaltato la precoce
marcatura di Costa Ferreira. Il portoghese, però, bissando la soddisfazione
personale, più tardi vidimerà il ritorno tra i dilettanti di un club, il
Martina, che aveva creduto di poter stoppare il declino con una campagna di
rafforzamento invernale generosa e beneaugurante. La retrocessione, piuttosto,
smentisce qualsiasi forma di ottimismo alimentata – non senza fondamento –
durante il percorso: perché, malgrado la prossima serie D sostituisca, di
fatto, questa Seconda Divisione (per intenderci: si passa da una quarta serie
ad un’altra quarta serie), pur sempre di retrocessione si tratta. Dettata, lo
riassumiamo ancora una volta, da un avvio di campionato zoppicante, da qualche
intervento arbitrale penalizzante e, innanzi tutto, dalla lunga sequenza di match ball inutilizzati, tra febbraio ed
aprile. Ma anche da una consistenza di squadra mai pienamente raggiunta,
nonostante l’innegabile lievitazione delle idee e del modulo di gioco. In una
sola frase: la sensazione che tormenta è quella di un Martina persino vitale,
nel punto cruciale del torneo, ma incapace di offrirsi per intero e di gestirsi
sempre e comunque. Sintetizzando ancora: il Martina sembra aver dato (e speso) tanto,
nel girone di ritorno. Ma non abbastanza. Pur avendone facoltà, riteniamo noi. Molto
spesso, tuttavia, e di questo ne siamo perfettamente consapevoli, i campionati
nascono male e finiscono peggio. E sappiamo pure che nulla è davvero scontato,
nel pallone. Dove qualsiasi delusione cocente, di solito, apre porte e finestre
a non pochi dubbi. Che, a queste latitudini, già si schierano minacciosi. Ad
esempio: i sovvenzionatori esterni apparsi a lavori in corso (Ghirardini, ma
non solo) investiranno ancora in serie D? E poi: il gruppo di lavoro al vertice
societario potrà nuovamente incaricarsi di programmare la scalata al
professionismo (vincere la D,
da qui in avanti, implicherà un sacrificio economico suppletivo)? Infine: il pallone,
in Valle d’Itria, possiede un futuro oppure no?
lunedì 5 maggio 2014
Bisceglie, lampi sui titoli di coda
L’anonimo campionato dl Bisceglie si evolve proprio in prossimità dei
titoli di coda: quando il risultato è assolutamente svincolato dall’urgenza,
quando il senso della stagione si è ormai annacquato e quando, soprattutto, la
classifica della formazione affidata a poco più di due mesi dal traguardo a
Carlo Prayer è impermeabile a qualsiasi desiderio. A salvezza ormai maturata e
a playoff irraggiungibili, però, Zotti e soci mettono assieme sette punti negli
ultimi centottanta minuti: sbarrando, oltre tutto, la strada alle tre
principali candidate alla retrocessione diretta. Deve accontentarsi di un punto la Puteolana e, di seguito, cedono il
Grottaglie e il Gladiator: e sono, infatti, i sammaritani a sprofondare in Eccellenza. Non
concede sconti a nessuno, il Bisceglie. Dopo aver promesso impegno massimo
nell’ultima fase della regular season.
E dopo aver sollevato non pochi dubbi negli avversari appena incontrati:
timorosi di aver pagato per tutti. Ma, alla fine, smentiti dai fatti.
Complimenti al club stellato, allora. E complimenti pure al suo nocchiero:
fiero di aver raggiunto, a carriera inoltrata, la panchina di una prima
squadra. E di essere stato investito dell’incarico da una società di prestigio,
in un torneo di rilievo. Del resto, assicurando l’assoluta regolarità della battaglia
per la salvezza, Prayer si era caricato un impegno gravoso: non solo nei
confronti degli avversari, ma della sua stessa gente. Sapendo, peraltro, di
giocarsi parecchie chances personali.
Giocando anche con la sua stessa riconferma. Che non è affatto sicura, neppure
adesso (primo, perché patron Canonico deve ancora decidere come comportarsi, in
prospettiva futura). Ma che, oggi, non appare una soluzione impossibile. Il
tecnico barese, intanto, ha colto l’occasione offertagli con serietà granitica,
con dedizione solidissima. Contando, come lui ha stesso ha più volte
sottolineato, sulla disponibilità tangibile di chi va in campo e sulla
complicità di tutto l’ambiente. Finendo per alleviare le preoccupazioni sorte sulla
piazza nel momento in cui il suo predecessore Favarin si ritrovò sollevato da
qualsiasi responsabilità. Intuendo, probabilmente, che il Bisceglie necessitava
innanzi tutto di due ingredienti, per concludere il proprio cammino nel miglior
modo possibile: la tranquillità, nello spogliatoio e in campo, e la libertà di
espressione. Quella che ha accompagnato nella fase conclusiva del torneo i suoi
big: appartatisi prima di decollare e
poi ricomparsi, a collettivo ricompattato.
mercoledì 30 aprile 2014
Il Taranto e le occasioni che contano
Prima il Brindisi, dopo il Francavilla, poi il Monopoli, quindi il
Marcianise, infine la
Turris. Una dopo l’altra, cadono molte protagoniste della
quinta serie che alberga tra la
Puglia e la
Campania. E il campionato seleziona le forze migliori.
Premiando, cioè, chi ha sbagliato meno. Il rush
finale è una corsa che riguarda Matera e Taranto. E nessun altro. Lotta a due,
battaglia dura. Stessa resa (cinquantotto punti, prima di domenica scorsa), stessi match a disposizione (due). E,
attorno, il profumo di spareggio. Incandescente, affascinante. Ma in questo
torneo, ormai lo sappiamo, le porte si aprono, si chiudono, si riaprono e si
richiudono con facilità disarmante, in un vortice di emozioni purissime. E
davvero niente è scontato. Oltre tutto, il calendario è infido per tutti, sino
in fondo: anche per il Matera, che viaggia verso Vico. E pure per il Taranto,
ospitato dal Marcianise. I costieri cercano punti per salvarsi, ma la gente di
Cosco passa ugualmente. Mentre la formazione jonica si ferma, spartendo la
posta con i casertani, troppo orgogliosi per rassegnarsi alla quinta piazza
dopo tre quarti di stagione di rilievo e qualità. Ecco, allora, che i destini
sembrano compiersi prima del tempo: il Matera vede la C e progetta di superare in casa
il Manfredonia, nel prossimo match, per festeggiare. E il Taranto mastica amaro,
amarissimo. Rispolverando tutti i suoi limiti proprio davanti al traguardo. Non
è, del resto, un segreto: con esperienza e personalità, Papagni ha occultato (o
ridimensionato) la natura sdrucciola di un organico male assortito, poco
equilibrato (penetrante nell’area avversaria, morbido in fase di filtro e non
possesso) e non sempre credibile nelle occasioni che contano. Cioè, nelle gare che
indirizzano la stagione. Sin quando ha potuto, però. Per intenderci: gli
accorgimenti tattici e il buon senso del tecnico biscegliese, con il sostegno
di un alto quoziente realizzativo, hanno finito per sostenere il collettivo,
mantenendolo sin qui in prima fascia: eppure, i problemi strutturali di un
tempo sono rimasti tutti e gli infortuni individuali e di reparto hanno scritto
il resto. Pesando al momento della verità. La partita di Marcianise, peraltro,
riassume un po’ di verità assolute. Denudando, al contempo, un atteggiamento
difettoso: il Taranto si porta in vantaggio per due volte, finendo però per
intimorirsi e per concedere metri e iniziativa alla manovra della formazione di
Fogliamanzillo. In sostanza, reticenze e personalità sbiadita condannano la
squadra ai playoff: a meno che il campionato non riservi, al fotofinish, l’ultimo coup de theatre. A verdetto virtualmente
scritto, tuttavia, non possono convincerci le prime accuse, più o meno feroci,
schizzate irrazionalmente sulla società, sul tecnico e sugli effettivi di un
organico allestito con sacrifici estivi non indifferenti e, soprattutto, in fretta,
alle soglie del torneo. La riappropriazione del calcio, sui due Mari, d’altra
parte, è un processo lento che deve tenere conto di molti dettagli e, prima di
ogni altra cosa, degli insegnamenti del passato. Approfondire le valutazioni ed
esercitare il diritto di critica è legittimo. E, anche da queste colonne, nessuno
ha mai circumnavigato la questione, discutendoci sopra. Ma sparare addosso a
questo Taranto, sia pure sulla scia della delusione o della frustrazione, è
ingiusto. Almeno questa volta, le attenuanti ci sono: e sono roba seria.
martedì 29 aprile 2014
Martina, tra delusione e speranze
E, ad un certo punto, arrivano i momenti in cui le parole e i disegni non
contano. In cui, invece, serve esclusivamente vincere. Non importa come.
Chiunque si pari di fronte. Generalmente, peraltro, questi sono momenti che arrivano
in fondo al viale, davanti ad un bivio. Di qua il destino che si accartoccia
sotto il peso della colpevolezza: e che, nel caso specifico, si chiama
retrocessione. O serie D. Ovvero, la reimmersione nell’universo dei dilettanti:
di nome, più che di fatto. Di là, la
redenzione della serie C, quella unica, quella tutta nuova pensata dalla Lega e
da un calcio che prova a sopravvivere a se stesso. Cioè, la cancellazione di
ogni peccato accumulato in corsa, sin dagli albori della stagione. E, nel
mezzo, quella lotteria degli spareggi di fine corsa: che si chiamano ufficialmente
playoff e che, questa volta, sono contemporaneamente playoff. Quella lotteria
un po’ bizzarra alla quale il Martina, ad un certo punto, si era persino
ribellato, provando ad ottenere di meglio. E alla quale, infine, proprio
nell’ultima settimana si era concettualmente affezionato: un po’ perché
l’ottavo posto (l’ultimo utile alla promozione diretta) era ormai blindato dal
Lamezia. E un po’ perché la ricorsa recente ha offerto i numeri giusti per
pensare ad una scappatoia un po’ scomoda, ma ugualmente utile (a fine playout,
la migliore passa in C e le altre tre affondano in D: mai accaduto, su questi
campi). Vittoria deve essere, allora: senza dubbio alcuno. E vittoria, alla
fine, è stata. E non importa se la gioia si libera oltre il novantesimo, pochi
secondi dopo aver incassato il sigillo del pari: che l’avversario non cerca, ma
trova. Quasi per sbaglio. Magari, senza troppo gradire. La formazione di Tommaso
Napoli, a centottanta minuti dalla conclusione, s’imbatte nel Cosenza già
promosso, sparring partner che
s’impegna per obbligo, non per convinzione. Approccia senza foga, si nutre
dell’accondiscendenza altrui, ma non sfonda. Segnare dovrebbe diventare
l’operazione più naturale, ma la manovra s’inaridisce e un certo fastidio
cresce. Il lavoro di Montalto e Arcidiacono, prima degli altri, è però premiato
dalla costanza e dall’istinto del bisogno: il gol dell’artigliere siciliano
sembra promettere la prosecuzione dell’avventura. Tutto, invece, si complicherà
più tardi, a fase di recupero già avviata. Per appianarsi magicamente qualche
istante più avanti. Perché così è scritto. E così deve essere. Attenzione,
però: non cede il Martina e non cede neppure la concorrenza. La posizione di
vantaggio – certo - resiste, ma non basta ancora. Traducendo, i playout e le
speranze di salvezza vanno ancora guadagnati: all’ultimo chilometro si supera
lo Stretto e si rende visita al Messina, un’altra delle otto squadre già
qualificate al prossimo campionato di terza serie. In certi frangenti, i favori
della provvidenza sono particolarmente graditi. Di contro, un po’ di rammarico
affiora ugualmente, emerge. L’obiettivo dell’ottava piazza, creduta tra marzo
ed aprile un traguardo oggettivamente raggiungibile, svanisce nello spazio di
due settimane e il disappunto è corposo. Alla fine, cioè, pesano le occasioni
perdute, i punti sperperati.. Incide quel gap
di partenza vincolante: che un organico ampiamente rinnovato e qualitativamente
migliorato dopo il girone di andata aveva tuttavia esorcizzato. E non paga
neppure quella consapevolezza di essere diventati all’altezza del compito, in
coda ad una partenza affaticata. Potremmo sbagliarci, ma ipotizziamo lo stesso:
forse è proprio quella sicurezza acquisita a metà del cammino a generare nel
gruppo un pizzico di supponenza o di rilassamento. Di sicuro, la seconda
versione del Martina semina senza raccogliere, lasciando qualcosa per strada. E
quel qualcosa è decisivo: il progetto di base non si evolve, non si compie. Nel
percorso, ci sono le premesse: ma difetta la conclusione. E la sensazione che
resta è quella di un’operazione incompiuta. Che soltanto il primo posto nel
girone finale potrà scacciare.
lunedì 28 aprile 2014
Lecce, manca l'acuto finale
L’impresa è esagerata, ma la speranza deve reggere sino in
fondo. L’ultimo atto della regular season nasconde un obbligo: vincere e
sperare. Che le avversarie realizzino poco o niente e che poi, la domenica
successiva, si accontentino di un pari nello scontro diretto. Finendo per
avvantaggiare, in qualche modo, la terza concorrente che, per l’occasione,
riposa. E che, dunque, non potrà incrementare la propria classifica. Diciamo
pure che, da una certa angolazione, non va benissimo: il Frosinone si libera
agevolmente, in casa, dell’Aquila. Ma neppure malissimo: il Perugia, a Salerno,
pareggia. Solo che il Lecce, a Pisa, stecca. Disperdendo la possibilità di
spareggiare con gli umbri e autoinfliggendosi la punizione dei playoff con una
settimana di anticipo. Niente primo posto: nemmeno per sette giorni. Ma neppure
seconda piazza e, quindi, niente pole
position nella griglia degli spareggi di maggio. La formazione di Lerda,
invece, si ritrova terza della classe: condizione, questa sì, inattaccabile. In
Toscana, del resto, l’avversario è immediatamente più pronto. Il gol che decide
il match piove abbastanza presto, dopo appena undici minuti. Il Lecce non saprà
rimediare: Miccoli ci prova e spreca il pari, poi il tecnico decide di
avvicendarlo con Zigoni. Da qui in poi, la squadra si spegne, rassegnandosi
alla crudezza della realtà. Bogliacino e compagni si fermano un attimo prima
del traguardo: pagando, forse, lo stress accumulato in una rincorsa
dispendiosa. Soffrendo, una volta di più, la pressione dell’evento. Fallendo,
così come in occasione dell’ancora recente sfida con il Perugia, l’approccio ad
una gara troppo delicata. E, probabilmente, inchinandosi anche di fronte al
fattore psicologico: il Lecce, magari, non ci crede sino in fondo. Oppure no:
perché è così, in fondo, che doveva andare. Qualche giorno di silenzi e di
riposo, allora, serviranno ad assorbire delusione e rabbia. Quindi, la giostra
dei playoff. Crederci, questa volta, è assolutamente necessario.
mercoledì 16 aprile 2014
Grottaglie, crollo verticale
C’era una squadra incerta ed ingenua, minacciata da complicazioni
societarie stringenti, in difficoltà palese sull’erba amica, immatura nella
gestione dei passaggi fondamentali: era il Grottaglie di Alberto Bosco,
esautorato a metà del cammino, prima della rivisitazione tecnica e del
consolidamento del club. Così, Giacomo Pettinicchio ereditava una classifica
affaticata e un organico migliorato negli uomini e arricchito numericamente: e,
con le energie nuove, l’esperienza del nocchiero e il lavoro, lievitavano la
produzione di gioco, l’abitudine al risultato e, dunque, le speranze. Il nuovo
Grottaglie, lentamente, si arrampicava sulla classifica, avvicinandosi al
traguardo. Rifiutando idealmente persino la prospettiva dei playout, così
scomodi e misteriosi. Rivolgendosi, in seconda persona, anche alle big del torneo. Pur senza ottenere,
tante volte, la moneta che avrebbe pienamente meritato. Ecco, proprio in questo
segmento temporale, segnato da un’evoluzione strutturale e tecnica, cominciava
invece a propagarsi il male: figlio legittimo di un’involuzione mentale, ovvero
psicologica. Contraccolpo violento, verrebbe da dire: la scarsissima resa, a
fronte del buon calcio espresso, finiva per spegnere la squadra, velocemente. Proprio
mentre il calendario si addolciva. Proprio mentre la concorrenza si
risvegliava. Guardare la classifica, in questo momento, impaurisce: il
Gladiator, ultimo, è appena un passo indietro. La Puteolana ha appena
formalizzato il sorpasso. Qualche scontro diretto (a Metaponto, in casa con il
Vico, sul sintetico di Manfredonia) è transitato invano, lasciando in dote
appena un punto: che, poi, è l’unica e insufficiente soddisfazione degli ultimi
due mesi. E i playout, alla fine, sono addirittura un’incombenza niente affatto
scontata, eppure da salutare volentieri. L’ultimo capitolo, in terra sipontina,
illustra sapientemente il crollo verticale. E fotografa le fatiche di una
squadra che non sa più reagire alle avversità. Schiacciata, probabilmente, dalla
sua stessa (e genetica) fragilità. Che l’ordine tattico e la manovra più
spigliata, sicuramente, hanno occultato per un po’: senza, tuttavia, annientare.
E scoprendo il lato più intimo e debole del carattere del Grottaglie: quel
carattere che la società, adesso, pretende. Ringhiando.
martedì 15 aprile 2014
Lecce, provarci è un diritto
La lunga rincorsa irrobustisce i muscoli e gli appetiti del Lecce, che sull'erba di casa si
scrolla pure lo spessore del Frosinone, sin qui leader di un campionato che ancora non conosce nitidamente il suo
stesso destino. Due a zero secco, legittimato dagli eventi, di forza e rabbia,
di decisione e fame. E’ il successo del sorpasso in graduatoria, che però non significa prima
piazza. Ne approfitta, piuttosto, il Perugia di Camplone, nuovo favorito numero
uno al salto di categoria senza passare per la pericolosa via dei playoff. La
gente di Lerda si accoda, un punto dietro. E sembra in grado di poter ruggire
sino in fondo, di dire la sua sino all’ultimo minuto. Ma il calendario è nemico
e si beffa del Lecce, che può contare su una gara in meno, in confronto alla
concorrenza: il turno di riposo, proprio all’ultima giornata, è un ostacolo
troppo alto per essere bypassato con nonchalance. Nella domenica della
verità, cioè, la realtà si racconta per quella che è: magari, la rincorsa può
regalare il miglior piazzamento nella griglia degli spareggi di fine stagione. Ma
non di più. Anche se il pallone non è scienza esatta e, in determinate
situazioni, tutto può accadere. Tanto che, nel Salento, la religione impone di
confidare ancora e di battersi sino a quando la matematica spiegherà l’evidenza.
Ragionevolmente, però, la storia della promozione diretta sembra già scritta e
il Lecce non fa parte di questa storia. La regular
season si esaurisce troppo presto. O, meglio, la squadra ha guadagnato
sostanza e continuità troppo tardi. Ma il futuro prossimo, oggi, non fa troppa
paura. Gode di buona salute, questo Lecce. Le gambe stanno reggendo: non si
spiegherebbero, del resto, un rush
finale così sciolto e l’alta produttività degli ultimi tempi. E, se il fiato
non manca, di solito funziona anche la testa: guadagnarsi l’accesso alla B in
seconda battuta non è poi così proibitivo. Provarci è un diritto, più che un
dovere.
lunedì 14 aprile 2014
Più Brindisi che Turris, ma non basta
Ci sono situazioni che si evolvono. E squadre che rientrano nel pieno del
gioco, nel vortice della battaglia. Apparse, ad un certo punto, ragionevolmente
lontane dalla storia di un campionato che stringe e che, domenica dopo
domenica, seleziona sempre più e, invece, ancora arruolabili nel discorso dei
playoff. Cioè di quello strumento utile per assicurarsi, chissà, una promozione
di scorta. Il Brindisi è una di quelle squadre ripescate dal gioco un po’
perverso del girone appulocampano di quinta serie. E lo è pure la Turris: che, anzi, la
mancanza di continuità delle altre big
del torneo ha saputo recuperare persino nella corsa alla prima piazza. Da non
credere: ma vero. Turris e Brindisi si salutano a Torre del Greco: e non c’è
soluzione all’eventuale sconfitta. Per entrambi. Concetto sùbito assai chiaro
ai campani, in gol molto presto, dopo otto minuti. Forse più pronti, o più
spendibili nell’immediato, i corallini creano movimento all’interno dell’area
adriatica, mentre l’apparato difensivo della formazione di Chiricallo si blocca
ed assiste alla scena del vantaggio della gente di casa. L’atteggiamento di
partenza di Gambino e soci è, nello specifico, difettoso: ancora una volta,
peraltro. Ma, di lì in poi, c’è più Brindisi che Turris: sin dalla metà della prima
frazione di gioco, si intravede una certa frenesia. E pure una certa dose di
coraggio: mancata troppe volte, invece, nelle trasferte precedenti a questa.
Kamano rintuzza, Pollidori spinge e Ancora sfugge: solo che il sigillo del pari
non arriva. Il rovescio, l’ennesimo rovescio lontano dall’erba del Fanuzzi, finisce così per complicare il
progetto: anche i playoff si allontanano sensibilmente, malgrado non sia ancora
ufficialmente finita. Appena chiamato a spendersi un po’ più e un po’ meglio,
però, l’organico si è puntualmente inchiodato: e questa è una verità
inconfutabile. Al di là dei condottieri (con Ciullo e con il nuovo coach) e dei
moduli utilizzati sin qui. Segno inequivocabile di un gruppo mai maturato sino
in fondo, diciamo pure incompiuto. Lo pensa patron Flora, lo sottoscrive
Chiricallo, lo sospettiamo tutti, da tempo. Adesso, a traguardo virtualmente
compromesso, possiamo ufficializzarlo: senza timore di smentita. Il campionato,
in occasioni come queste, non mente.
mercoledì 9 aprile 2014
Barletta, un anno sprecato. In tutti i sensi
Non è un torneo particolarmente affascinante, quello della terza serie
nazionale. E conosciamo ampiamente le cause alla radice dell’effetto:
retrocessioni bloccate, sequenza massiccia di match inutili, caso-Nocerina e
altro ancora. Vero, la rincorsa del Lecce alla prima piazza, ad esempio, offre
interesse nuovo e adrenalina di riserva. E la corsa ai playoff è sempre viva. Ma
queste sono storie che animano la zona più nobile della classifica e che, di
conseguenza, non coinvolgono tutta la popolazione affezionata al girone meridionale
della C1. E, infatti, adesso ci preme di parlare dell’altra metà del mondo e,
innanzi tutto, del Barletta. Che su queste colonne – colpevolmente, magari –
abbiamo un po’ trascurato, in questi ultimi tempi. Primo, perché – appunto – questo
è un campionato senza anima, che ci affretteremo a dimenticare. E, secondo,
perché quello che avevamo da dire, sostanzialmente, è stato già scritto. Il
campionato, cioè, avrebbe dovuto rappresentare (per la società e, dunque, per
la piazza) la palestra ideale in prospettiva futura. Una palestra in cui
guardarsi attorno, preparare la nuova stagione e, soprattutto, costruire le
basi per un futuro un po’ più saldo. Puntando, ad esempio, sulla gioventù:
magari proveniente dal proprio settore giovanile. Operazione, per la verità, in
parte riuscita (parliamo di Guglielmi, ovviamente). Questo torneo, per capirci,
avrebbe dovuto rappresentare il segmento di transizione tra ieri e domani.
Anche se ricordiamo benissimo gli appetiti dell’ambiente e certe dichiarazioni
di massima, indirizzate verso la partecipazione ai playoff. Che, tuttavia, la
caratura dell’organico aveva – sin dall’avvio della stagione, cioè la Coppa Italia – escluso. Diciamo
così, allora: a Barletta questi mesi sono stati utilizzati male. Anche perché
un’ambiguità di fondo ha finito con il corrompere i rapporti tra il club e la
sua gente, da sùbito. Perché il presidente Tatò si è dimesso presto, stanco di
assalti verbali e contestazioni. Perché il numero uno della società si è
defilato, rimanendo comunque ai margini: un po’ dentro, un po’ fuori. Perché la
fiducia tra le parti si è incrinata, per sempre. Perché la distanza tra l’ormai
ex allenatore (Nevio Orlandi, silurato da poco) e la tifoseria si è allargata
eccessivamente, nel tempo. Perché la differenza di pensiero tra il
plenipotenziario Martino (esautorato pure lui) e l’ambiente si è deteriorata
assai. E per tanti altre motivazioni. Certo: il pubblico del Puttilli e la città, in generale, hanno
sopportato a fatica la programmazione minima. O, se preferite, mal digerito il
cambio in corsa di un progetto mai totalmente chiaro. Traditi, probabilmente,
da quel vortice di umori che, spesso, fa deragliare qualsiasi pianificazione.
Però, e uno dei problemi più insidiosi è proprio questo, brucia – e non poco –
la prospettiva o la certezza dell’umiliazione. Umiliazione, ad esempio, sono
quei sei gol sofferti ultimamente di fronte al Benevento, che poi hanno causato
la deflagrazione in un contesto già precario, sintetizzato con una
contestazione popolare rumorosissima e, infine, il defenestramento di Orlandi e
Martino (a proposito: per stanchezza o per altro, la società ha gestito la
situazione con qualche esitazione). Mentre, sullo sfondo, si agitavano (e si
agitano ancora) gli spettri del fallimento: perché il club è sempre aperto a
nuovi investitori (a costo zero, ripete Tatò), ma i possibili acquirenti
dimenticano di formalizzare una proposta concreta. Dall’umiliazione, intanto,
nasce il disagio. Dal disagio, sfociano i rancori. E, dai rancori, sboccia
l’intransigenza della parte più calda del tifo. Quello che è accaduto proprio
domenica, cioè, è assolutamente al di fuori del normale e della logica. Il
Barletta gioca (e perde, ma non è una novità) a Pontedera. Nel corso della
gara, si infortuna e perde conoscenza il capitano, Fabrizio Di Bella (diagnosi:
trauma cranico): e, allora, proprio dalla curva occupata dai sostenitori del
Barletta, si alza per tre volte un coro becero, che al ragazzo augura il
peggio. E’ il segnale di un punto di non ritorno già toccato. Ed è,
soprattutto, l’ufficializzazione di un anno sprecato. Alla fine del quale,
invece di raccogliere qualcosa, occorrerà seminare. Nella migliore delle
ipotesi, ovviamente.
martedì 8 aprile 2014
De Luca e l'improrogabile epilogo
Il derby con il Taranto è perso. E, con il derby, anche ogni oggettiva
possibilità di promozione. Almeno quella in prima battuta. Perché, se non
altro, la battaglia per inserirsi nella griglia dei playoff continua. Malgrado,
adesso, i desideri del Monopoli non siano affatto blindati (Francavilla e
Brindisi inseguono e sperano ancora). O tutelati: né dal calendario (gli
adriatici, ad esempio, domenica riposano e poi incontreranno il Marcianise), né
dal nuovo profilo psicologico del gruppo, adesso obbligato ad assorbire in
fretta l’ultima mazzata e, quindi, a reagire. Sì, il derby si consuma senza gloria
e l’ambiente monopolitano deglutisce molto male il responso del campo.
Scagliandosi soprattutto sul condottiero della squadra, ritenuto il
responsabile principale della prima caduta stagionale al Veneziani: per la formazione proposta all’inizio della sfida, più
che per l’atteggiamento speso sul campo nella seconda parte della gara. Claudio
De Luca, oltre tutto, al novantesimo dribbla l’appuntamento rituale sotto la
curva. E il particolare non sfugge agli affezionati più intransigenti: anche
perché l’episodio si nutre di qualche precedente che ha contribuito, nel
recente passato, ad allontanare le posizioni del tecnico di Castellana da quelle della tifoseria. Che, peraltro, tributa
alla squadra applausi sinceri. Questo passaggio, in realtà, ratifica lo
sgretolamento di un rapporto già abbondantemente deteriorato. E che la
situazione caotica venutasi a creare dopo la partita di Brindisi ha abbruttito.
De Luca, inoltre, finisce per scontare le asperità di altre contingenze, come
il diverbio avvenuto proprio domenica
scorsa in tribuna tra un suo parente stretto e alcuni supporters. Di certo, tuttavia, nella mattina di ieri si sparge
la voce delle sue dimissioni: ma chi conosce un po’ il carattere del tecnico,
fatica a crederci. Di fatto, però, la società decide di intervenire
compiutamente: e, dal summit serale,
sempre di ieri, scivola una notizia
abbondantemente prevista. Le strade si separano. E, ufficialmente, si tratta
proprio di dimissioni: anche se resta forte la sensazione di una motivazione di
comodo. Esonero oppure no, comunque, cambia poco. L’epilogo, alla piazza, è
gradito. Forse pure inutile, ma forse no. Perché l’incompatibilità ambientale
si è fatta, giorno dopo giorno, sempre più pressante. Perché, se ben sfruttato,
il cambio di panca (arriva, nel frattempo Elio Cocco, sin qui responsabile
della formazione Juniores) potrebbe
inaugurare, in anticipo sui tempi, la pianificazione della stagione che verrà.
E soprattutto perché, ad un mese dal traguardo, il club comincia seriamente a
temere anche l’esclusione dall’appendice dei playoff: un accadimento che,
oggettivamente, si trascinerebbe appresso il sapore del fallimento.
Foggia, è festa
Giglio utilizza come sa e come deve il pallone giusto, il Poggibonsi si
arrende e il Foggia acquisisce la certezza dell’aritmetica. Adesso,
l’ammissione alla futura C unica è ufficiale. I xxx punti, ormai, sono inattaccabili:
con tre giornate di anticipo. La classifica potrà consolidarsi ancora (la Casertana e il Teramo viaggiano
una sola lunghezza sopra), oppure deteriorarsi un po’ (il Messina è due punti
dietro, l’Ischia tre): nella peggiore o nella migliore delle ipotesi, però, non
cambierà granché. Allo Zaccheria c’è
atmosfera di festa e la festa può cominciare. La formazione di Padalino si
affretta ad archiviare la pratica, copre il campo con decisione, detta il gioco
e i ritmi, governa palla e partita e, infine, colpisce. L’opposizione dei
toscani è ampiamente gestibile e il risultato non traballa mai. Tre punti e
via, la tensione può sciogliersi nella grazia della promozione. Il fallimento e
l’affossamento tra i dilettanti sembrano spettri lontani. Nello spazio di dieci
mesi, in Capitanata si sorride per la seconda volta di sèguito. Prima il
ripescaggio in Seconda Divisione, escamotage
burocratico per aggirare un’altra stagione di confinamento in quinta serie e
per dribblare il fastidio di concorrere, quest’anno, con troppe pretendenti al
salto di categoria. E, quindi, l’affermazione sul campo: probabilmente, meno
faticosa del previsto, eppure non meno dispendiosa, in termini di investimento
e di energie nervose. Quanto basta per recuperare il terreno perduto dopo il
fallimento del vecchio club di Casillo e per ricollocare il blasone in un
angolo meno angusto. Passando per un resettaggio malinconico nelle modalità, ma
tecnicamente utile. Il Foggia, in meno di due anni, è sostanzialmente risorto,
azzerando i passivi di un tempo e riacquistando la dignità. Ricostruendosi
un’immagine e impalcando le fondamenta per affrontare un futuro più solido. Ma,
soprattutto, ricostruendo i rapporti con la città e la tifoseria. Non senza
attraversare qualche momento di smarrimento e di fibrillazione. Non senza
temere di inciampare sugli ostacoli di sempre, che sono propri dell’espressione
calcistica di una realtà socialmente confusa ed economicamente debole. Non
senza aggirare con astuzia qualche difficoltà di percorso: puntando anche sul
coinvolgimento concreto della tifoseria, nel momento di maggior bisogno. Come
quando servì promuovere una sorta di colletta, per garantirsi la fidejussione
da allegare alla domanda di ripescaggio. Al momento in cui, cioè, il club
decise di far sottoscrivere alla sua gente l’abbonamento per tre campionati di
fila, introitando un po’ di contante. E, infine, non senza ricorrere al
sacrificio personale dei suoi finanziatori (Franco Lo Campo, immediatamente in
coda al match di domenica, ha quantificato in un milione le uscite certificate
per guadagnarsi la terza serie). Foggia e il pallone, intanto, si
riappacificano. Stringendosi attorno ad un allenatore che, nella foggianità,
sembra aver coniato il proprio marchio di fabbrica e ad un organico più pratico
che illusorio, compatto ed affamato, motivato e sostanzialmente costante, nel
rendimento. Malgrado un avvio di campionato affaticato e osteggiato da amnesie
difensive e dai tanti sistemi di gioco che si sono inseguiti. E, perché no,
abbracciando l’intero organigramma societario, che - anche a dispetto delle
apparenze - nel doppio salto ha sempre profondamente creduto. Puntando tutto (e
rischiando non poco) sull’onerosa pratica di ripescaggio, l’estate scorsa.
Operazione, quella, dai risvolti oscuri e pericolosi: ma, in definitiva, anche
e soprattutto una scommessa vinta sugli scettici, noi compresi.
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